“Da ebrei denunciamo lo sterminio a Gaza. Siamo contro il sostegno acritico a Israele”

STEFANO LEVI DELLA TORRE, intervistato da ELEONORA CAMILLI

Il professore: “Hamas e la destra di Netanyahu vogliono la stessa cosa: neutralizzarsi. Criminalizzare le università israeliane è sbagliato, criticarle è doveroso quanto dialogarci”

«Quello che sta succedendo a Gaza è intollerabile, un crinale per la storia di Israele e degli ebrei». Stefano Levi Della Torre, critico d’arte, saggista e docente di architettura al Politecnico di Milano è una delle “voci ebraiche per la pace”. Il collettivo formato da pensatori del mondo della cultura (tra cui Gad Lerner, Renata Sarfati, Eva Schwarzwald) riuniti nell’appello “Mai indifferenti”, che ha promosso oggi alla Casa della cultura di Milano un incontro pubblico per ragionare sulle atrocità commesse in questi sei mesi nella Striscia. Ma anche per “spezzare la compattezza della comunità ebraica” troppo spesso acritica nei confronti del governo di Netanyahu.

Professor Levi Della Torre, perché avete sentito il bisogno di alzare la voce?

«Siamo una rete di persone che si è trovata convergente nel trovare intollerabile quanto sta accadendo. Siamo in polemica anche con il sostegno acritico verso Israele. Naturalmente condanniamo l’aggressione del 7 ottobre, ma la risposta di Israele la troviamo dello stesso livello di civiltà dell’attacco di Hamas. C’è una simmetria della violenza, anche se quella di Israele su Gaza è estesa e duratura e l’altra è stata un’aggressione puntuale. Abbiamo dunque lanciato un appello accentuando il fatto che siamo voci ebraiche. Noi non pensiamo che qualsiasi cosa faccia Israele vada bene. E l’ostilità anti ebraica non può che crescere di fronte allo sterminio in corso a Gaza».

Parlate anche di linguaggio d’odio. Una delle parole su cui ponete attenzione è “antisemitismo”. C’è il rischio di un suo ritorno?

«Sta già avvenendo, lo sterminio di Gaza unisce e incrocia il pregiudizio antiebraico con il post giudizio sull’azione di Israele. Siamo di fronte a un crinale nella storia: la questione degli ebrei come vittime si incrocia con il fatto che lo Stato che si dice ebraico sta conducendo uno sterminio di popolazione sia a Gaza sia in Cisgiordania. Se la memoria della Shoah è stata finora una specie di garanzia nei confronti degli ebrei ora rischia di ribaltarsi in un atto di accusa».

Cioè?

«Ci sono due declinazioni della memoria della Shoah: da una parte si dice che noi siamo in credito nei confronti dell’umanità per quanto ci è stato fatto, dall’altra si pensa che tutti siano responsabili di fronte alle atrocità di massa, compresi gli ebrei. Se la Shoah è un crimine contro l’umanità essa riguarda la responsabilità di tutti, non esclusi quelli che sono stati vittima del genocidio».

Crede che quello in corso a Gaza si possa definire un genocidio?

«Non mi pronuncio sulla parola, non so ancora. Quello che so, però, è che il governo Netanyahu ha colto l’occasione dell’aggressione di Hamas per cercare di procedere alla soluzione finale della questione palestinese, che è in sospeso da anni ed è considerata una sorta di malattia interna. Siamo di fronte a quello che io chiamo un “antagonismo collusivo” tra Hamas e il governo di Israele. Antagonismo perché sono nemici giurati, collusivo perché, come sostiene lo scrittore Amos Oz, tutti e due vogliono una cosa molto simile. Hamas vuole che non esista Israele, l’attuale destra israeliana che non ci siano i palestinesi in Palestina. La soluzione per entrambi è la sparizione di uno dei due».

Senza la possibilità di un compromesso.

«Sono entrambi d’accordo che non si possa parlare di due popoli e due Stati ma che ci debba essere un popolo e uno stato. O palestinese o israeliano. Senza alcun compromesso».

In queste settimane le università italiane si sono mobilitate per Gaza contro Israele. E si sono creati due fronti: c’è chi dice che bisogna mantenere le relazioni e chi chiede di boicottare i bandi di ricerca per evitare qualsiasi complicità. Lei come si pone?

«Trovo giusto che i giovani si muovano e facciano attenzione a quello che sta succedendo nel mondo. Ma trovo che sia altrettanto importante mantenere i contatti con chi si oppone in Israele. Criminalizzare globalmente le università israeliane è sbagliato».

La critica è rivolta alle tecnologie dual use, che potrebbero cioè avere sia fini civili che militari. Il timore è di una possibile complicità col governo israeliano.

«Questo rischio c’è sempre, qualche ricerca di base può andare anche in questa direzione. Ed è giusto criticare. Altra cosa è interrompere le relazioni. I centri di ricerca sono luoghi interetnici dove lavorano ebrei israeliani e palestinesi. Non è un bene che si crei un’ulteriore spaccatura».

C’è stata una forte critica in questi mesi verso una parte del movimento femminista che non avrebbe condannato chiaramente gli stupri commessi da Hamas verso le donne israeliane. È una critica che condivide?

«L’antisemitismo ha qualcosa di affine alla lotta universale contro le donne. E lo vediamo riaffiorare ovunque: dalla lotta contro l’aborto in America fino alla lapidazione delle donne in Afghanistan. Se vogliamo schierarci con i palestinesi e la difesa dei loro diritti non dobbiamo dimenticare l’essenzialità della lotta culturale sul tema delle donne. Gli stupri sono stati propagandati da Hamas per il loro significato simbolico di umiliazione del nemico, ma pure come proposta culturale contro la libertà femminile in occidente. Tacerlo in nome della causa palestinese è insopportabile».

in “La Stampa” del 14 aprile 2024