ENZO BIANCHI
Un proverbio arabo recita: “Ogni parola, prima di essere pronunciata, dovrebbe passare attraverso tre porte. Sulla prima c’è scritto: è vera? Sulla seconda: è necessaria? Sulla terza: è gentile?”.
C’è molta sapienza in questo detto. Dalla parola, infatti, dipende la comunicazione e dalla comunicazione la possibilità della comunione, dunque la qualità della vita umana, perché quanto meglio uno comunica, tanto più si umanizza. Eppure la parola non è facile, occorre generarla ricevendo un seme di parola da altri, permettendo in noi una gestazione, in cui la parola prenda forma, e poi occorre partorirla nel dolore, perché non c’è parola senza una gravidanza che la preceda. Non c’è parola nostra che non nasca dalla parola di altri. Lungo mestiere quello di imparare a parlare. Nelle relazioni quando ci si affaccia alla vita appare un impulso a parlare così prepotente che ci spinge a vivere senza gli altri, contro gli altri: dobbiamo pur vivere, costi quel che costi. Questo impulso può portare alla violenza e a quello che solo apparentemente è il contrario della violenza: non si uccide l’altro negandolo, ma con una regressione alla fusionalità dell’incesto. Gettati dal ventre materno nel mondo, non si prendono le distanze dalla madre, dalla famiglia, dal contesto civile. Si arriva così a rifiutare l’incontro con l’altro, lo straniero, il diverso. Inoltre, una volta che siamo nel mondo, tra gli altri, c’è la possibilità della menzogna, della cattiva comunicazione, della falsità: tutto ciò è dovuto alla mancanza di fiducia nell’altro. Quando c’è la menzogna, nessuna comunicazione è possibile, viene meno la fiducia.
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