Archivi categoria: Tematiche religiose

Verona. Dialogo sulla pace tra Papa Francesco e rappresentanti movimenti e associazioni

Di fronte a oltre 12 mila persone, il dialogo del Papa con rappresentanti di società civile, movimenti e associazioni impegnati in percorsi di costruzione della pace: l’individualismo è la radice delle dittature, guardare con realismo ai conflitti per disinnescarli. Davanti alle guerre, “siamo maestri nel lavarci le mani”, la conversione vera tocca anche le istituzioni. Arena di Verona, Sabato, 18 maggio 2024, [Multimedia]

1. LA PACE VA ORGANIZZATA (Tavolo Democrazia Diritti)

Domanda

Papa Francesco, sono Mahbouba Seraj, sono venuta qui, nell’Arena 2024, da Kabul, in Afghanistan. Ho sempre creduto in Lei, Santo Padre: Lei è un uomo di pace e Lei può fare molto. Quello che consiglio è che, affinché Lei abbia maggiore successo, dovrà preparare delle istituzioni di pace, dovrà porre tutti i suoi sforzi nella costituzione di istituzioni di pace. Nel mio Paese, l’Afghanistan, noi abbiamo avuto l’illusione della democrazia, l’illusione della pace. Da 44 anni a questa parte, il mio Paese è in guerra e vorrei sapere che si può fare: Lei, Padre, cosa ci consiglia? Ma non solo per l’Afghanistan: il Suo consiglio illuminato vale per tutto il mondo. Come possiamo far funzionare l’opera di pace? E noi siamo tutti al Suo fianco, in questa impresa. Traduzione dei versi che sono stati pronunciati da Mahbouba Seraj: “La moschea, La Mecca, il Tempio, sono tutte scuse. La vita di Dio è nella tua casa”.

Risposta

La domanda è su quale tipo di leadership può portare avanti questo compito che tu hai espresso così profondamente. La cultura fortemente marcata dall’individualismo – non da una comunità – rischia sempre di far sparire la dimensione della comunità: dove c’è individualismo forte, sparisce la comunità. E questo, se noi passiamo ai termini politici e demografici, forse è la radice delle dittature. Così va. Spariscono la dimensione della comunità, la dimensione dei legami vitali che ci sostengono e ci fanno avanzare. E inevitabilmente produce delle conseguenze anche sul modo in cui si intende l’autorità. Chi ricopre un ruolo di responsabilità in un’istituzione politica, oppure in un’impresa o in una realtà di impegno sociale, rischia di sentirsi investito del compito di salvare gli altri come se fosse un eroe. E questo fa tanto male, questo avvelena l’autorità. E questa è una delle cause della solitudine che tante persone in posizione di responsabilità confessano di sperimentare, come pure una delle ragioni per cui siamo testimoni di un crescente disimpegno. Se l’idea che abbiamo del leader è quella di un solitario, al di sopra di tutti gli altri, chiamato a decidere e agire per conto loro e in loro favore, allora stiamo facendo nostra una visione impoverita e impoverente, che finisce per prosciugare le energie creative di chi è leader e per rendere sterile l’insieme della comunità e della società. Gli psichiatri dicono che una delle aggressioni più sottili è la idealizzazione: è un modo di aggredire.

È questa è una visione ben lontana da quella espressa dal detto bantu: “Io sono perché noi siamo”. La saggezza di questo detto sta nel fatto che l’accento è posto sul vincolo tra i membri di una comunità: “Noi siamo, io sono”. Nessuno esiste senza gli altri, nessuno può fare tutto da solo. Allora l’autorità di cui abbiamo bisogno è quella che innanzi tutto è in grado di riconoscere i propri punti di forza e i propri limiti, e quindi di capire a chi rivolgersi per avere aiuto e collaborazione. L’autorità è essenzialmente collaborativa; altrimenti sarà autoritarismo e tante malattie che ne nascono. L’autorità per costruire processi solidi di pace sa infatti valorizzare quanto c’è di buono in ognuno, sa fidarsi, e così permette alle persone di sentirsi a loro volta capaci di dare un contributo significativo. Questo tipo di autorità favorisce la partecipazione, che spesso si riconosce essere insufficiente sia per la quantità che per la qualità. Partecipazione: non dimenticare questa parola. Lavoriamo tutti, tutti partecipiamo nell’opera che portiamo avanti. Una buona partecipazione che voi descrivete così: «Espressione di domande e proposta di risposte collettive a criticità e aspirazioni, produttrice di cultura e nuove visioni del mondo, energia civile che rende individui e comunità protagonisti del proprio futuro» (Documento Democrazia). In una società o in un Paese o in una città, anche in una piccola impresa, se non c’è partecipazione le cose non funzionano, perché noi siamo comunità, non siamo solitari. Non dimenticare questa parola: partecipazione. È importante.

E una grande sfida oggi è risvegliare nei giovani la passione per la partecipazione. C’è una parolina che dimentichiamo quando diciamo: “faccio io”, “andrò io”… La parolina qual è? Insieme. Questa forza dell’insieme, la partecipazione è questo. Bisogna investire sui giovani, sulla loro formazione,per trasmettere il messaggio che la strada per il futuro non può passare solo attraverso l’impegno di un singolo, per quanto animato delle migliori intenzioni e con la preparazione necessaria, ma passa attraverso l’azione di un popolo – il popolo è protagonista, non dimentichiamo questo –, in cui ognuno fa la propria parte, ciascuno in base ai propri compiti e secondo le proprie capacità. E vi farei io una domanda: in un popolo, il lavoro dell’insieme è la somma del lavoro di ognuno? Soltanto quello? No, è di più! È di più. Uno più uno fa tre: questo è il miracolo di lavorare insieme.

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L’amore di Dio non è meritocratico

ENZO BIANCHI

Da tempo si osserva come nella predicazione della chiesa siano divenuti sempre più rari e a volte siano perfino scomparsi temi centrali del cristianesimo come la morte, la vita eterna, il giudizio. Ma c’è un altro tema che nel passato ha tanto infervorato l’Occidente cristiano con secoli di dibattiti appassionati, di tragiche divisioni e di reciproche accuse di eresie, ma che ora sembra aver perso l’interesse di un tempo: la grazia.

Relegata nello studio specialistico della storia delle dottrine, della grazia se ne parla assai poco nella catechesi, nelle omelie, nell’insegnamento dei vescovi. Probabilmente è la reazione ai trattati di cui fu oggetto che avevano i peggiori difetti che si siano potuti rimproverare alla teologia. I teologi hanno moltiplicato i concetti, giungendo a ripartire la grazia in categorie: grazia preveniente, grazia antecedente e grazia conseguente, grazia efficace e grazia sufficiente, grazia santificante e grazia attuale, grazia sanante e grazia elevante, senza dimenticare la grazia gratuita. Forse ci si è talmente stancati di sentir parlare della grazia che essa è stata relegata negli scaffali delle biblioteche, ritenendola argomento da specialisti, un tema ormai desueto e poco eloquente.

Ma escludere la grazia dal cristianesimo significa compromettere non un dettaglio ma il cuore del messaggio cristiano: l’amore di Dio non lo si merita mai. L’amore di Dio è gratuito e non dipende dalle capacità e dai meriti dell’uomo. Il giovane teologo Adrien Candiard dedica alla grazia un piccolo testo che è uno scrigno di intelligenza spirituale. Candiard dopo essersi dedicato alla politica, nel 2006 è entrato nell’ordine domenicano, per poi trasferirsi al Cairo come membro dell’Institut dominicain d’études orientales. Esperto di Islam, è considerato uno degli autori di spiritualità più affermati in Europa. Per i suoi libri ha vinto numerosi premi in Francia.

Che cos’è la grazia di Dio e a che cosa servono i comandamenti? Per rispondere a questa domanda l’autore commenta il più importante dei discorsi fatti da Gesù nei vangeli, il cosiddetto discorso della montagna nel quale prende le distanze dalla Torah di Mosè. Ripetendo più e più volte una formula che nessun Rabbi fino ad allora aveva osato utilizzare, afferma: «Avete udito che fu detto …. Ma io vi dico». «Avete inteso che fu detto. Non commetterai adulterio. E io, da parte mia, vi dico: chiunque guarda una donna con il desiderio di possederla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore». E così per altri quattro comandi: l’omicidio, lo spergiuro, la legge del taglione, l’amore del nemico. Gesù consegna ai suoi discepoli una legge nuova che è compimento di quella mosaica, la quale non è abolita ma portata a compimento.

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#la preghiera dell’ateo

GIANFRANCO RAVASI

Dio di volontà, / Dio onnipotente, cerca / (sfòrzati), a furia di insistere / – almeno – d’esistere.

L’aveva intitolata Preghiera d’esortazione e d’incoraggiamento e lui si definiva il poeta dell’«ateologia». Ho citato Giorgio Caproni, livornese, morto a Roma nel 1990 a 78 anni, dopo aver lasciato una produzione poetica spesso provocatoria e fin sarcastica, ma capace di lacerare il velo dell’ipocrisia e di imprimere un continuo sussulto per la ricerca di un significato all’esistenza umana. Spesso la sua è stata una sorta di teologia negativa, un baratro dal quale si levava un grido non di invocazione di supplica o di lode, ma di attesa perché Dio cercasse di esistere e svelarsi. Scoprire il senso del mondo e della stessa nostra vita è, infatti, nel forare il «muro della terra», come dice il titolo di una sua raccolta poetica. Anzi, Caproni si era trasformato in un «franco cacciatore» – titolo di un altro suo libro di poesie – che va appunto alla caccia di Dio, «lui, che lo hanno ucciso, è qui / più vivo e incombente / (più spietato) che mai».

In lui, come in tanti altri «cercatori» che spìano ogni eventuale segnale di un Dio negato, si compie quello che osserva un altro poeta, il francese Pierre Reverdy (1889-1960): «Ci sono atei di un’asprezza feroce che, tutto sommato, si interessano di Dio molto più di certi credenti frivoli e leggeri». Sì, perché la linea di frontiera primaria passa non tra chi crede e chi nega, ma tra chi pensa seriamente e si interroga e chi banalizza tutto e si immerge nel grigiore nebbioso dell’indifferenza e della superficialità. Lasciamo, allora, la voce a un altro ideale fratello di Caproni, il russo Aleksandr Zinov’ev (1922-2006): «Ti supplico, mio Dio, cerca di esistere, almeno un poco, per me… Vivere senza testimoni, quale inferno! Per questo io urlo: Padre mio, ti supplico: esisti!».

in “Il Sole 24 Ore” del 12 maggio 2024

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Gesù nella sinagoga di Cafarnao

ANTONIO SPADARO


Gesù è a Cafarnao nella sinagoga. È il giorno di sabato, dunque immaginiamo lo spazio pieno. Non vediamo il suo ingresso: Marco (1,21-28) lo inquadra mentre insegna. Lui è al centro dell’attenzione, ma lo sguardo si sposta subito sulla gente che lo ascoltava. Li vediamo tutti stupiti. Erano abituati alla predicazione degli scribi, ma ascoltando lui sono sorpresi. Che cosa li scuote? Ciò che dice? In realtà pare non sia questo. Li colpisce il fatto che lui “insegnava loro come uno che ha autorità”. In un tempo come il nostro nel quale l’auctoritas sembra ormai proprietà privata degli influencer, questa affermazione stupisce anche noi. Gesù era ancora il signor nessuno. Eppure, le sue parole appaiono credibili, non come quelle degli “altri”. C’è una differenza. Lo stupore ammutolisce le persone.

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“Siate annunciatori e costruttori di speranza in un mondo segnato da molte disperazioni”

PAPA FRANCESCO, [Multimedia] – [ AR  – IT  – PL ]

Tra canti di gioia Gesù è asceso al Cielo, dove siede alla destra del Padre. Egli – come abbiamo appena ascoltato – ha ingoiato la morte perché noi diventassimo eredi della vita eterna (cfr 1 Pt 3,22Vulg.). L’Ascensione del Signore, perciò, non è un distacco, una separazione, un allontanarsi da noi, ma è il compimento della sua missione: Gesù è disceso fino a noi per farci salire fino al Padre; è disceso in basso per portarci in alto; è disceso nelle profondità della terra perché il Cielo si potesse spalancare sopra di noi. Egli ha distrutto la nostra morte perché noi potessimo ricevere la vita, e per sempre.

Questo è il fondamento della nostra speranza: Cristo asceso al Cielo porta nel cuore di Dio la nostra umanità carica di attese e di domande, «per darci la serena fiducia che dove è Lui, capo e primogenito, saremo anche noi, sue membra, uniti nella stessa gloria» (cfr Prefazio dell’Ascensione).

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Cattolicesimo. Papa Francesco e la “questione donna” nella Chiesa

STEFANIA FALASCA

«La Chiesa è donna». E «uno dei grandi peccati che abbiamo avuto è “maschilizzare” la Chiesa». «E questo è un compito che vi chiedo, per favore, smaschilizzare la Chiesa». Nell’udienza ai membri della Commissione Teologica Internazionale papa Francesco aveva voluto ancora una volta stigmatizzare, anche con neologismi, l’urgenza di una questione che riguarda la Chiesa. La sollecitudine con la quale l’attuale Successore di Pietro, fin dalla sua elezione, si è dedicato alla questione delle donne, del loro ruolo e del loro accesso alle responsabilità ecclesiali evidenzia infatti un’urgenza avvertita con molta chiarezza: quella di affrontare una realtà che riguarda la visione della Chiesa stessa e investe la sua natura gerarchica e comunionale.

È tale visione infatti che spinge il Papa a percepire il monocolore maschile come un difetto, uno squilibrio, una minacciosa minorazione della Chiesa. considerato che senza le donne essa risulta deficitaria nell’annuncio e nella testimonianza e che, dunque, compromette la sua missione.

E in questo senso è stato significativo che il Papa, già l’indomani dell’inizio del suo ministero petrino, abbia subito attirato l’attenzione con un gesto posto al cuore della liturgia della Settimana Santa, che sorprese e provocò, invitando due donne, due detenute, alla lavanda dei piedi che celebrava il Giovedì Santo. Un gesto rilevante consegnato alla Chiesa per esprimere e dispiegare il mistero pasquale nella carne del mondo ricongiungendo l’intera umanità. E subito dopo, con l’annuncio pasquale, celebrava la testimonianza re dalle donne al Risorto, le prime testimoni, le prime chiamate ad annunciare la Salvezza, protagoniste privilegiate della Pasqua.

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Ecumenismo cristiano. L’unità difficile delle chiese

ANDREA RICCARDI

Ieri si è celebrata la Pasqua nelle Chiese ortodosse e orientali (armeni, copti, siriaci, etiopi e altri). Per lo scrittore russo, Nikolaj Gogol, i russi considerano la Pasqua come «essenza» della loro cultura. Putin ha partecipato, nell’imponente cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, alla liturgia pasquale celebrata dal patriarca Kyrill. La liturgia al Santo Sepolcro di Gerusalemme è particolare: dall’edicola del sepolcro, il patriarca offre ai fedeli la fiamma di Pasqua, che si comunica ai presenti, illuminando la chiesa buia.

Per Pasqua l’Oriente segue il calendario giuliano, non quello gregoriano, introdotto in Occidente nel 1582. Più volte, nel Novecento, si è posto il problema ecumenico di una data comune, ma sono emersi grandi ostacoli. Tali questioni coinvolgono la sensibilità dei popoli e si rischiano non solo aspre discussioni, ma scismi. Da non molto, il patriarca copto, l’egiziano Tawadros, si è espresso per una data comune fissa, non mobile secondo il calendario. Papa Francesco sembra favorevole a spostare la celebrazione cattolica sulla data ortodossa.

Non siamo però in tempi ecumenici. Ovunque si è raffreddato l’entusiasmo per l’unità dei cristiani, forte nella seconda metà del Novecento e dopo il Vaticano II. Il dialogo teologico ha fatto seri passi in avanti, ma è ancora parziale. Ci sono problemi teologici, ma soprattutto di storia e mentalità. Il patriarca ortodosso di Costantinopoli, Athenagoras, morto nel 1972, che tanto operò per l’ecumenismo, colse l’incipiente processo di unificazione del mondo: invitò i leader cristiani a non arrivare divisi a quell’appuntamento. Invece, le Chiese sono giunte divise alla globalizzazione, anche se in migliori rapporti del passato.

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La pratica religiosa in Italia in declino

ENZO BIANCHI

Tra facile fatalismo e apatica rassegnazione, negli ambienti ecclesiali si ripete come un refrain l’espressione: «dopo il covid la partecipazione alla messa è dimezzata». Si ha l’impressione che attribuendo alla pandemia il crollo nella partecipazione al rito religioso per eccellenza in Italia, la cosiddetta “Santa Messa”, si vogliano ignorare o ancor peggio negare le sue reali cause ormai da tempo in atto e, al tempo stesso, rinunciare ad assumersi le responsabilità di fronte a un fenomeno così religiosamente devastante e socialmente rilevante.

Che riversare la colpa sul lockdown sia un alibi e una scusa ora lo dimostra scientificamente anche uno dei più noti e autorevoli sociologi della religione, Luca Diotallevi, ordinario di Sociologia presso l’Università di Roma TRE. Nel saggio La messa è sbiadita. La partecipazione ai riti religiosi in Italia dal 1993 al 2019, edito da Rubbettino, l’autore mostra che se si osservano i valori relativi alla partecipazione ai riti religiosi presentati dalla grande rivelazione annuale dell’ISTAT per gli anni 2015-2021, si deve costatare che la regressione alla partecipazione alla messa domenicale era già in atto da anni.

Dati alla mano, il sociologo di Roma Tre mostra ciò che da tempo tutti costatano: il crollo verticale della partecipazione alla messa della domenica. Si è passati dal 37,3 % della popolazione adulta nel 1993 al 23,7 del 2019. I giovani che dichiarano di frequentare sono l’8 % e gli adolescenti il 12 %. Nel 2019 le donne maggiorenni che dichiarano una pratica almeno settimanale sono ancora più degli uomini: il 28,7 % delle prime contro il 18,3 % dei secondi. Tuttavia il dato da evidenziare è che nel caso delle donne si è perso quasi il 40% del valore registrato nel 1993 e nel caso degli uomini poco più del 30%.

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Ritorno del sacro e differenza cristiana

ENZO BIANCHI

Continua nella Chiesa il dibattito sul “sacro” e sul suo necessario riconoscimento nella vita cristiana. Purtroppo, c’è un’ambiguità nella parola “sacro” e, di conseguenza, una molteplicità di comprensioni diverse. Molti oggi parlano della necessità del ritorno del sacro nella liturgia, accusano la liturgia attuale dovuta alla riforma conciliare di essere priva del sacro e, dunque, le attribuiscono la responsabilità della loro incapacità di pregare e di mettersi in comunione con il Signore. Ora, proprio per il perdurare di tante polemiche, ritorno su questo tema ricordando che se “sacro” significa alterità da riconoscere e da rispettare, allora possiamo affermare che il sacro è cosa buona. Ad esempio, la percezione che lo spazio liturgico è altro rispetto allo spazio della nostra vita ordinaria è cosa buona e necessaria. Così come tenere in mano il pane eucaristico è tenere in mano non pane ordinario ma il corpo del Signore. Gli esempi potrebbero essere molti, senza però far coincidere questa consapevolezza con la concezione degli esperti della religione che definiscono il sacro come ciò che appartiene a uno spazio separato, intangibile, inviolabile, che deve ispirare paura, timore e rispetto.

Qui dobbiamo essere chiari e non aver paura di affermare la differenza cristiana rispetto al sacro delle religioni. Su questo punto c’è anche una rottura tra Antico e Nuovo Testamento, tra Torah e Vangelo! Gesù nella scia dei profeti ha combattuto questa concezione del sacro. Se per la Torah sacro è uno spazio per Dio come il tempio, e quindi sacre sono tutte le regole connesse al tempio e al suo funzionamento, per Gesù il sacro va cercato altrove. Per questo egli dichiara che il tempio non è più il luogo di adorazione di Dio, e lo purifica per ridargli unicamente lo scopo voluto da Dio: casa di preghiera per tutte le genti, tutta l’umanità!

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“Date vita a una sinfonia di gratuità in un mondo che cerca l’utile! Allora sarete rivoluzionari”

PAPA FRANCESCO, Discorso ai giovani di Venezia, 28 aprile 2024[Multimedia]

Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Anche il sole sorride! È bello vedervi! Trovarci insieme ci permette di condividere, anche solo attraverso una preghiera, uno sguardo e un sorriso, la meraviglia che siamo. Infatti tutti noi abbiamo ricevuto un dono grande, quello di essere figli di Dio amati, e siamo chiamati a realizzare il sogno del Signore: testimoniare e vivere la sua gioia. Non c’è cosa più bella. Non so se vi è capitato di vivere alcune esperienze così belle da non riuscire a tenerle per voi, ma da sentire il bisogno di condividerle. Tutti noi abbiamo questa esperienza, una esperienza tanto bella che uno sente il bisogno di condividerla. Noi siamo qui oggi per questo: per riscoprire nel Signore la bellezza che siamo e rallegrarci nel nome di Gesù, Dio giovane che ama i giovani e che sempre sorprende. Il nostro Dio ci sorprende sempre. Avete capito questo? È molto importante, essere preparati alle sorprese di Dio!

Amici, qui a Venezia, città della bellezza, viviamo insieme un bel momento di incontro, ma stasera, quando ciascuno sarà a casa, e poi domani e nei giorni a venire, da dove ripartire per accogliere la bellezza che siamo e alimentare, da dove ripartiamo per cogliere questa bellezza? Vi suggerisco due verbi, per ripartire, due verbi pratici perché materni: due verbi di movimento che animavano il cuore giovane di Maria, Madre di Dio e nostra. Lei, per diffondere la gioia del Signore e aiutare chi era nel bisogno, «si alzò e andò» (Lc 1,39). Alzarsi e andare. Non dimenticare questi due verbi che la Madonna ha vissuto prima di noi.

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