FIORELLA FARINELLI
Diffondere allarmi sulla perdita dell’identità culturale degli italiani è irresponsabile. Così come pensare all’integrazione come a qualcosa di immediato e banale.
La discussione pubblica sull’integrazione delle crescenti minoranze etniche e culturali si sta facendo sempre più difficile, troppo polarizzata per essere utile. È un disastro, tra gli altri, che a venirne strumentalmente coinvolta sia la scuola, la prima frontiera di due processi correlati. Da un lato la formazione dei figli dell’immigrazione per la partecipazione a pieno titolo al futuro del Paese di accoglienza; dall’altro l’educazione alla convivenza delle nuove generazioni, italiani-doc e nuovi italiani. Mettere sotto attacco gli insegnanti che operano in quest’orizzonte, diffondere allarmi sul “cedimento continuo all’islamizzazione” che connoterebbe scuole come quella di Pioltello è irresponsabile, e potrebbe rivelarsi un boomerang in un’Italia dove ci sono 2,7 milioni di musulmani. Rincorrere la favola maligna secondo cui nelle “scuole plurali” si minerebbe oltre all’identità culturale degli italiani anche il loro apprendimento – la stessa che alimenta la “fuga bianca” di tante famiglie contribuendo alla polarizzazione etnico-sociale degli istituti scolastici – è una falsità che può far raccattare voti, ma fa male alla scuola e al nostro futuro. Irresponsabile è però anche la banalizzazione dell’integrazione, la retorica dell’inclusione che nasconde ogni polvere sotto il tappeto, il disconoscimento della specificità del problema in nome di povertà o fragilità generiche.
Gli 865.388 studenti di cittadinanza non italiana recentemente censiti dal ministero dell’Istruzione, quasi metà di provenienza europea, non sono gli “invasori” di Lampedusa. Si tratta per lo più dei figli dell’immigrazione stabilizzata, oltre il 67% nati in Italia, seconde e talora terze generazioni. Degli altri, molti sono venuti nei primi anni di vita, una quota minore sono i nuovi arrivati (NaI) per lo più da adolescenti “senza sapere una parola di italiano”: i “ricongiunti” e i “minori non accompagnati” (dalla Tunisia, dall’Egitto, e anche da quell’Albania cui abbiamo esternalizzato il vaglio dei nostri ultimi arrivi). Nel 2022 i NaI sono stati 16 mila, un numero più che dimezzato rispetto a dieci anni fa, di cui 14 mila nelle due secondarie. I dati sui risultati medi di apprendimento, migliori nelle scuole del Nord sebbene a presenza “straniera” più alta (nelle regioni settentrionali se ne addensa più del 62% del totale, il 25% nella sola Lombardia, mentre nel Sud si è sempre abbondantemente sotto il 10%) sfatano il pregiudizio, raccolto e rilanciato dal ministro Valditara, secondo cui i loro deficit linguistici metterebbero a rischio l’apprendimento degli studenti italiani. Sono il 10,3% della scolarità, meno della consistenza effettiva perché le statistiche del ministero non intercettano i tanti già cittadini italiani. Ma il peso specifico è destinato a crescere, al di là di oscillazioni annuali, per un calo demografico che falcia ogni anno nella scuola circa 100 mila iscrizioni.
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