Perché l’8 marzo dimentica il 7 ottobre

LUIGI MANCONI

Perché mai la più convinta solidarietà con il popolo palestinese dovrebbe attenuare la più intransigente condanna degli stupri delle donne israeliane a opera di Hamas? E perché, ancora, la piena adesione alla prospettiva di «due popoli due Stati» porterebbe a ridimensionare l’orrore per quel femminicidio di massa? Possiamo serenamente trascurare le sciocchezze di tanti esponenti della destra politico-mediatica a proposito della presunta indifferenza del femminismo europeo e italiano, che — secondo alcuni disgraziati—«sta con Hamas»: ma è innegabile che un problema c’è.

La mobilitazione femminile e femminista intorno alla data dell’otto marzo non ha saputo porre al centro delle proprie emozioni, delle proprie parole e dei propri atti i corpi delle ebree violentate, mutilate e degradate il 7 ottobre scorso. Le ragioni sono tante e complicate: e provare a indagarle non mi sembra esercizio inutile. Anche perché in gran parte hanno a che vedere con limiti e contraddizioni, cattive abitudini e stereotipi, sedimentati nella cultura dell’intera sinistra, ancor prima e ancor più che nel movimento delle donne. E non va nemmeno ignorata la persistenza largamente inconscia di tracce di una antica e tenacissima giudeofobia, che tende a riprodurre diffidenza e sospetto.

Ma oggi, forse, pesa maggiormente una lettura delle vicende geopolitiche tutta in una chiave di belligeranza onnipervasiva che non offre scampo e vie di uscita; e che sembra costringere tutti a un approccio marziale e a un posizionamento militarizzato. Ogni persona di buona volontà tenderebbe a patire, fino allo strazio, con i civili uccisi dalle bombe dell’esercito israeliano e con le donne violate dai miliziani di Hamas. E presumibilmente così batte il cuore delle femministe e delle donnee degli uomini di sinistra. Se così non risulta è perché tra quel sentimento umano e le parole e i gesti interviene come un filtro deforme la politica, nella sua espressione più settaria e anti-umana che è, appunto, quella bellica.

Le donne violentate il 7 ottobre del 2023 apparterrebbero al campo percepito da tanti come nemico. Non si coglie, cioè, la loro prima e fondamentale natura — quella di vittime — ma si privilegia la loro, per così dire, «oggettiva» dislocazione nello schieramento ostile. Di conseguenza, la pietas neiconfronti di quelle donne rischia di apparire come un cedimento alle ragioni del nemico e un tradimento della causa che si vorrebbe sostenere. Nella vicenda in questione, tutto ciò porta fatalmente a conseguenze perverse: se la priorità è combattere il nemico principale— lo Stato di Israele — Hamas risulterà sempre un elemento secondario, una «contraddizione inseno al popolo» e non un nemico di quello stesso popolo (palestinese).

Si può dire che questa «sindrome belligerante» sia l’esatto contrario della concezione del pacifismo più nobile, in quanto quest’ultimo è costantemente concentrato sulla ricerca di un’alternativa alla polarizzazione guerresca (noi versus loro); e tenta terze vie, percorsi di neutralità e di disarmo generalizzato, strategie di interposizione sottratte alla disciplina dei due eserciti in armi.

Penso, per restare a questa vicenda, alla donna israeliana ostaggio di Hamas che, appena liberata, si pone, già nei suoi primi gesti, come un ponte tra i sequestratori e i soldati del suo Paese. E penso agli obiettori di coscienza israeliani e alle centinaia di associazioni di quello stesso Paese che, da decenni, intraprendono faticosissimi programmi di condivisione, mediazione e convivenza; e mi riferisco, infine, alle parole di tanti grandi scrittori israeliani e palestinesi.

Mi sembra questa la versione più autentica — profetica e nel contempo concretissima — di un pacifismo che abbia a cuore, in primo luogo, la verità. Ecco, tacere o anche solo trascurare il dolore delle donne ebree torturate dai miliziani di Hamas — a due giorni dalla pubblicazione del rapporto dell’Onu su tali torture — appare come un oltraggio a quella stessa verità. Anche perché al fine di giustapporre i crimini perpetrati dall’esercito israeliano e quelli commessi da Hamas non c’è alcuna necessità di enfatizzare i primi e occultare i secondi. Qui davvero l’orrore non conosce gerarchia. E le responsabilità della politica di Bibi Netanyahu sono davanti agli occhi del mondo: le immagini dei corpi ischeletriti dei bambini di Gaza, destinati alla morte per denutrizione e disidratazione, non concedono attenuanti.

Di conseguenza, mi chiedo, se la forza di una mobilitazione efficace per la pace non debba affidarsi proprio alla denuncia del complessivo scenario di efferatezza e sopraffazione determinato dalla guerra e dalla corresponsabilità dei due soggetti in campo. Penso che proprio questo sia il punto cruciale: la critica più radicale dei crimini di guerra e dei crimini control’umanità commessi da Hamas— lungi dall’attenuare — rafforza decisamente la contestazione più severa nei confronti della politica del governo israeliano. In altre parole, ritengo che le ragioni più solide per un vero cessate il fuoco risiedano nel rifiuto assoluto dell’inarrestabile meccanismo della violenza che si avvita su sé stessa, alimentandosi vicendevolmente e chiamando rappresaglia contro rappresaglia, vendetta contro vendetta, barbarie contro barbarie.

in “la Repubblica” del 13 marzo 2024

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