Il pensiero pacifista di Norberto Bobbio

DANIELE ARCHIBUGI

Il clima politico degli anni Sessanta del XX Secolo era così polarizzato da rendere ogni dibattito di politica internazionale ottuso. I sostenitori del Socialismo Reale erano ciechi verso le periodiche violazioni dei diritti umani commesse al di là della Cortina di ferro. Chi parteggiava per le democrazie occidentali, ignorava i crimini del colonialismo e dell’imperialismo. Durante la crisi di Cuba, si arrivò assai vicino all’uso delle armi nucleari, eppure la voglia di comprendere quale fosse la natura della guerra e le vie della pace in un mondo diviso in due blocchi contrapposti rimaneva del tutto assente.

Norberto Bobbio fu uno dei primi che tentò di dare una riposta a quella inedita situazione utilizzando gli strumenti a lui più idonei: la scienza politica, il diritto e la filosofia.

Fu così che nell’anno accademico 1964-65 accantonò i corsi tradizionali di Filosofia del diritto che teneva all’Università di Torino per dedicarne uno alla guerra e alla pace. Lo studioso era già ben attrezzato ad affrontare il problema, giacché la questione della pace è stato uno dei temi che più l’ha tormentato (come rammenta nella sua postfazione Pietro Polito – che di Bobbio è stato il più stretto collaboratore fino alla sua scomparsa nel 2004). Subito dopo aver terminato quel corso, Bobbio pubblicò un lungo e meditato saggio («Il problema della guerra e le vie della pace», 1966) sulla rivista Nuovi Argomenti diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci, all’epoca una delle poche tribune dove si potessero confrontare filo-occidentali e filo-sovietici. Un saggio che è stato più volte ripubblicato e ha rappresentato una guida imprescindibile per chi si occupa del tema.

INFATICABILE PIONIERE dei diritti umani, Bobbio è stato per tutta la vita un testimone partecipe della sua era. Se furono in molti ad occuparsi di relazioni internazionali quando la caduta del muro di Berlino accese nuove speranze, Bobbio ha avuto il coraggio di dire la sua negli anni più bui.

Affrontando, come suo solito, i problemi per modelli, Bobbio identifica tre forme principali di pensiero pacifista: quello finalistico (occorre modificare la natura umana per raggiungere la pace), quello strumentale (è necessario diminuire e in prospettiva abolire gli strumenti che consentono di combattere le guerre), e quello istituzionale (è necessario costruire un quadro giuridico capace di risolvere le controversie tramite il diritto piuttosto che con il ricorso alla forza).

Privilegiando il pacifismo istituzionale, Bobbio richiama la necessità di rafforzare le organizzazioni internazionali esistenti, a cominciare dalle Nazioni Unite. Anche Stati con sistemi politici antitetici dovevano accettare, in caso di controversie, di sottomettersi alle valutazioni di una autorità terza che avesse il compito di giudicarli sulla base del diritto e non della forza. La prospettiva di Bobbio era – e resta tutt’ora – del tutto formale; la politica internazionale continua ad essere il regno del più forte. Ma, da filosofo del diritto qual era, lo studioso torinese richiamava il fatto che sarebbe stato nell’interesse di tutti creare quella figura terza a livello mondiale, la stessa che aveva consentito di sviluppare, con qualche successo, la dialettica democratica all’interno delle singole nazioni.

TUTT’ALTRO CHE SPROVVEDUTO sulle logiche machiavelliche che ispirano la politica estera, Bobbio assolveva con coraggio il compito dell’intellettuale pubblico, segnalando i problemi e indicando le vie percorribili. Faceva presente che questo terzo «assente» a livello mondiale può attraversare diversi stadi. Il primo e più rudimentale è quello del mediatore, che deve tenere in considerazione qual è la forza a disposizione dei contendenti e proporre soluzioni che ne tengano conto. Il secondo è quello dell’arbitro, che deve giudicare i conflitti sulla base di un codice di condotta condiviso preventivamente dalle parti in causa, anche se sprovvisto del potere coercitivo per imporre loro di rispettare le sue decisioni. Il terzo e più evoluto stadio è quello del giudice, che non solo dispone di un codice condiviso dalle parti, ma che ha anche i mezzi per applicare le proprie sentenze.

FATTA QUESTA DISTINZIONE, Bobbio si chiedeva: sarà mai possibile giungere anche nella sfera internazionale ad un giudice mondiale che tragga la propria legittimità dalle parti, e che disponga sì di una forza propria, ma senza correre il rischio che si trasformi in un tiranno globale? La sua posizione fu vista con sospetto. A destra fu preso per un utile idiota della tirannia sovietica, a sinistra per un fiancheggiatore dell’imperialismo. Anche il suo approccio teorico fu malvisto dall’accademia italiana giacché Bobbio, piuttosto che fare storia del pensiero, aveva prodotto una elaborazione politica, con un metodo inviso in un Paese in cui dominava la scuola storica.

È quindi una graditissima e inattesa sorpresa scoprire che possiamo oggi leggere, grazie agli appunti presi da due studentesse dell’epoca, quel corso universitario. Come prassi del tempo, Nadia Betti e Marina Vaciago raccolsero infatti le lezioni per farne una dispensa per gli studenti. Vista la nota chiarezza espositiva del docente, il loro compito forse non è stato troppo arduo (Norberto Bobbio, Lezioni sulla guerra e sulla pace, a cura di Tommaso Greco, Laterza, pp. 255, euro 20).

In classe, Bobbio si esprime più liberamente, con un testo impreziosito da osservazioni estemporanee sui protagonisti del pensiero internazionalista. Vi troviamo così una critica devastante del concetto di guerra giusta, un excursus critico sulla filosofia della storia, considerazioni originali su autori che neppure sono menzionati negli altri suoi scritti. Si apprezza così un insegnante di grande erudizione che condivide con gusto il suo sapere con gli studenti, ma che diventa assai più asciutto quando, lasciata l’aula universitaria, espone le sue tesi nell’arena politica.

IN UN MOMENTO in cui siamo invischiati in due sanguinose guerre, risulta ovvio ricercare in queste lezioni ammonimenti per i tempi presenti, e se ne ritrovano a bizzeffe. Primo tra tutti, Bobbio sgombra il campo da tutte quelle teorie giustificative dell’esistenza di guerre. Non c’è alcun presupposto per ritenere che dalla guerra scaturisca alcuna forma di progresso. E qui, Bobbio – sempre così moderato nel linguaggio – si prende gioco di chi, da Nietzsche ai futuristi, ha irresponsabilmente elogiato la violenza. In secondo luogo, Bobbio mostra quanto sia arido dedicarsi all’interpretazione delle ragioni – economiche, territoriali, religiose o di altra natura – dei conflitti. La priorità per le scienze sociali dovrebbe essere trovare i mezzi per evitarli. Bobbio si impegna per moderarli tramite il rafforzamento di istituzioni internazionali, con una fiducia che oggi sembra eccessiva, senza tuttavia che siano emerse più promettenti scorciatoie.

Infine, pervade i suoi scritti il sotterraneo nesso che lega la democrazia all’interno degli Stati alla pace nei rapporti tra Stati. Da uomo che era cresciuto sotto il fascismo, Bobbio è stato un inesorabile partigiano della democrazia. Ma questo non lo rendeva cieco quando i regimi occidentali smarrivano del tutto i valori del proprio patto costitutivo in politica estera. Ne scaturiva una continua esortazione ai regimi democratici affinché fossero buoni cittadini della società degli Stati e applicassero, ove possibile, gli stessi principi a casa propria e nel mondo. Speranze così spesso tradite da donare, a lui e a tanti altri, amare delusioni.

in “il manifesto” del 13 marzo 2024

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