COP 28. La guerra delle fonti fossili spacca il mondo. Cento Paesi sfidano i produttori di petrolio

LUCIA CAPUZZI

Può essere considerata la foto simbolo del vertice Onu sul clima (Cop28). La presidente della Tanzania, Samia Suluhu Hassan, ha dovuto lasciare in tutta fretta il centro congresso di Dubai per tornare nel suo Paese devastato dalle alluvioni. Almeno 63 persone sono morte nella regione settentrionale di Hanang, migliaia hanno perso il raccolto. Il mese scorso, le piogge avevano già devastato l’area della capitale, Dar es-Salam, e distrutto le coltivazioni. L’agenzia meteorologica nazionale ha avvertito che le precipitazioni record proseguiranno per tutto il mese.

Un piccolo ma eloquente esempio di quella crisi climatica che il mondo si sforza di non vedere. Per non agire. Terminati i roboanti discorsi dei leader internazionali e la sfilza di annunzi di aiuti milionari o addirittura miliardari ai vari fondi per affrontare l’emergenza, il nodo dei negoziati è venuto al pettine: l’eliminazione graduale dei combustibili fossili da cui deriva il 15 per cento delle emissioni totali, senza considerare quelle sprigionate dal loro impiego. Gli Stati insulari e, almeno in teoria, l’Unione Europea (Ue) guidano il fronte dello stop che include un centinaio di nazioni. L’India si è autoproclamata capofila dell’opposizione. Dietro al gigante asiatico, però, c’è una lunga serie interessi. Quelli delle petro-potenze, in primis Arabia Saudita e Iran, per una volta concordi. Ma anche quelli degli altri Paesi produttori, come Russia e Stati Uniti. Questi ultimi risultano in una posizione estremamente ambigua: da una parte sostengono l’urgenza di tagliare le emissioni, dall’altra hanno raggiunto il record di estrazioni petrolifere, con 13,2 milioni di barili al giorno. E, infine, gli interessi dell’industria degli idrocarburi, presente in forze a Dubai. Man mano che i giorni passano, aumenta il sospetto che fra i contrari all’eliminazione ci sia anche il presidente della Conferenza, il sultano Ahmed al-Jaber, amministratore delegato della compagnia petrolifera emiratina Abu Dhabi national oil company (Adnoc). Il Guardian ha diffuso un suo vivace scambio di battute con l’ex inviata Onu per il clima Mary Robinson, durante un incontro online del 21 novembre, in preparazione del vertice.

«Non esistono prove scientifiche che l’eliminazione graduale del petrolio risolverà i problemi del clima», ha affermato nell’occasione il sultano-presidente, per poi aggiungere: «Senza petrolio si torna all’era delle caverne». Affermazioni che hanno provocato un coro di critiche da parte di scienziati, esperti, attivisti e osservatori. Anche perché l’Inter-governmental panel on climate change (Ipcc), massima autorità sul cambiamento climatico, è stato chiaro: per contenere le temperature entro la soglia di equilibrio di 1,5 gradi, entro il 2050 le quote di carbone, petrolio e gar andranno ridotte rispettivamente del 100 per cento, 60 per cento e 70 per cento. Alla fine, Jaber è stato costretto al passo indietro. In una conferenza stampa improvvisato, si è detto «sorpreso dei continui intenti di minare la credibilità del mio lavoro » e ha voluto chiarire la propria posizione sulle fonti fossili, la cui «diminuzione ed eliminazione graduale è inevitabile e, dunque, essenziale».

La precisazione, tuttavia, non ha convinto tanti. In prima linea, è scesa l’Alleanza degli Stati insulari, i più esposti all’impatto della catastrofe climatica. «Siamo determinati ad andare avanti nelle trattative, non siamo disposti a cedere – ha tuonato l’inviata per il clima delle Isole Marshall, Tine Stege –. Vigileremo su quanto la presidenza della Cop farà». In effetti, i piani di espansione di Adnoc vanno in direzione opposta allo stop. Secondo Rystad energy, le cui informazioni sono considerate affidabili dalla stessa Agenzia internazionale per l’energia (Aie), la compagnia avrebbe intenzione di estrarre il 42 per cento in più nel 2030, passando dall’attuale un milione di barili a 1,5 milioni. Una quota seconda solo all’Aramco saudita e incompatibile – come ha sottolineato Faith Birol, guida dell’Aie – con la riduzione delle emissioni.

L’azienda nega e sostiene che i calcoli riguardano la propria capacità produttiva non i reali programmi industriali. Rassicurazioni a loro volta contestate dai principali think thank ambientalisti.

In questo scenario, 1.500 scienziati – tra cui trentatrè autori dell’Ipcc, massima autorità scientifica sul cambiamento climatico –, hanno deciso di mobilitarsi attraverso il gruppo “Scientist rebellion”. «Siamo terrorizzati. Abbiamo necessità del tuo aiuto. Unisciti o avvia gruppi che promuovono politiche per creare un futuro migliore. Contatta i gruppi attivi dove ti trovi, scopri quando si incontrano e partecipa alle loro riunioni. L’azione per il clima deve passare dall’essere qualcosa che fanno gli altri a qualcosa che tutti noi facciamo», hanno scritto in una lettera aperta rivolta ai cittadini, in particolare ai giovani. Questi ultimi hanno sfilato nel centro congressi al grido: «Non ridurre, dobbiamo eliminare gli idrocarburi. La scienza è chiara».

in Avvenire, 06 dicembre 2023

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