Per salvare i giovani coltiviamo l’umanità

CHIARA SARACENO

L’umanità, come modalità di essere, sentire, vivere, stare in relazione con altri, non è un dato per scontato, che fluisce naturalmente dalla biologia. Va coltivata, fatta fiorire e accudita in se stessi e negli altri, perché rimanga vitale ed anche perché non rimanga un esercizio selettivo, che distingue tra chi ha diritto di godere e di vedersi riconosciuta la pienezza dell’umanità e chi invece è considerato sub-umano, nei fatti e talvolta anche nelle norme.

L’esercizio, e il riconoscimento, selettivi dell’umanità dell’altro/altra attraversa la storia e le culture. Schiavitù, colonialismo, forme di sfruttamento estremo, razzismo, uso della tortura, condizioni carcerarie lesive della dignità, oppressione delle donne, sono solo gli esempi più diffusi e plateali di forme di riconoscimento dell’umanità parziali, quando non del tutto assenti.

Anche le società democratiche fondate sui diritti, e sull’eguaglianza rispetto a questi, conoscono forme di riconoscimento selettivo, quando non negazione dell’umanità, di individui e di interi gruppi sociali, sia al proprio interno sia verso l’esterno. Le discriminazioni e riduzione degli spazi di libertà delle donne persistono anche qui, così come quelle nei confronti delle persone omosessuali e transessuali, o di etnia e colore della pelle diverse dalla propria.

Si tollerano condizioni di povertà estrema, che non consentono il pieno sviluppo delle capacità e l’esercizio della libertà di essere e fare. Sinti e camminanti in tutti i paesi sono la popolazione insieme più discriminata e più disprezzata. Si rinchiudono persone in condizioni indegne – che si tratti di carceri, di centri di prima accoglienza o centri per il rimpatrio. Si abbandonano a se stesse periferie abitate da persone e gruppi sociali considerati marginali.

I troppi Caivano sparsi per l’Italia sono l’esito di un esercizio selettivo di riconoscimento e coltivazione dell’umanità da parte in primis delle istituzioni pubbliche e della politica, ma anche della società civile che li ha ignorati, condannandoli non solo ad una invisibilità che li rende estranei, ma a forme di umanità ridotta fin da piccoli. Ci si abitua alle migliaia di disperati che muoiono ogni anno attraversando il deserto, Paesi ostili, il mare, le foreste, nel tentativo di trovare condizioni di vita migliori, più umane.

Facciamo accordi, non solo come Italia, ma come Europa, per esternalizzare ad altri Paesi, proprio perché considerati di fatto meno democratici ed evoluti dal punto di vista dei diritti umani, il contenimento di questi movimenti, indifferenti alle condizioni di negazione di umanità costituiti da campi profughi che, nel migliore dei casi, sono “non luoghi” ove si può solo riprodurre da una generazione all’altra la condizione di profugo immobilizzato, sradicato e non appartenente, senza futuro e senza libertà.

Nel peggiore dei casi sono veri e propri inferni dove malattie, mortalità, violenza sono la norma. Coltivare l’umanità significa coltivare la capacità di ridurre questi rischi di gerarchizzazione quando non di insensibilità, di riconoscere, valorizzare e nel limite del possibile sostenere l’umanità anche di chi è lontano e diverso. A questo fine l’educazione ha un ruolo centrale, nella misura in cui sostiene lo sviluppo delle capacità ed insieme forma/dovrebbe formare allo spirito critico, sollecitando anche l’interesse per le differenze, come fonte di conoscenza insieme di ciò che ci accomuna come umani, delle diverse sfaccettature in cui l’umanità si presenta, dei rischi, o casi veri e propri, di mancato riconoscimento o conculcamento dell’umanità.

Ma lo sbocco, il fine del coltivare l’umanità tramite l’educazione è l’acquisizione di capacità cognitive ed emozionali che favoriscano la consapevolezza che occorre costruire le condizioni per consentire a tutti di essere riconosciuti nella propria umanità. Garantire condizioni di vita dignitosa a tutti coloro che abitano un determinato territorio, il rispetto e la dignità anche alle persone che si trovano private delle libertà, contrastare la povertà educativa per permettere a tutti i bambini e bambine di far fiorire le proprie capacità, contrastare forme di ghettizzazione e/o di gerarchizzazione tra meritevoli e non meritevoli di aiuto e riconoscimento, mettere a punto politiche migratorie meno emergenziali e più rispettose dei migranti, pur nella impossibilità di accogliere tutti – queste sono le concrete azioni necessarie perché la coltivazione dell’umanità non rimanga un privilegio. Tutto questo e altro ancora è compito in primis della politica.

Ma è anche una nostra responsabilità come singoli e come associati nella società civile contribuire a sviluppare pratiche e contesti di vita in cui l’umanità dell’altro/a sia riconosciuta e fatta fiorire. Opponendo resistenza attiva a tutte le narrazioni e pratiche che viceversa la negano più o meno selettivamente.

in “La Stampa” del 9 settembre 2023

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