Edgar Morin: “Adesso ho paura per la democrazia”

EDGAR MORIN, intervistato da ANAIS GINORI

«Attraversiamo una crisi di civiltà, e il campo democratico potrebbe essere sconfitto». Nel corso di una vita lunga un secolo, Edgar Morin ha abbracciato saperi diversi, con i volumi della Méthode, l’opera enciclopedica scritta tra il 1967 e il 2006 per il quale si è guadagnato il soprannome di “Diderot del Novecento”. Pensatore universale, tra i più grandi intellettuali francesi, ha avuto un’esistenza fuori dal comune: la nascita l’8 luglio 1921 nella comunità ebrea sefardita del quartiere di Ménilmontant, la perdita della madre quando aveva dieci anni, il coraggio di passare nella Resistenza durante l’Occupazione, l’impegno politico nel partito comunista prima di allontanarsene e denunciarne le epurazioni, gli anni dedicati alla ricerca sociologica che lo hanno proiettato ai vertici del mondo culturale.

Morin ci riceve con una sfavillante camicia a fiori arancioni in un appartamento sopra alla brasserie Lipp. Lo sguardo curioso di sempre, è seduto a lavorare al computer. «Sto scrivendo un articolo sulla Francia e ho in preparazione uno o due libri» spiega, intercalando una lingua che appartiene solo a lui, il “fritagnol”, misto di francese, italiano e spagnolo.

Qualche giorno fa ha compiuto 102 anni. Come ha festeggiato?

«Nell’intimità, abbiamo fatto un’incantevole cena con mia moglie».

La festa nazionale del 14 luglio è stata accompagnata da timori per nuovi scontri nelle banlieue. Cosa c’è dietro questa rivolta ?

«Non si può rispondere con una sola frase perché bisogna ricordare il contesto storico. La Francia è stata attraversata da una serie di crisi successive, fra cui le ultime sono state le proteste contro la riforma delle pensioni e poi dopo l’omicidio del giovane Nahel. Si sono svolte manifestazioni, violenze eccessive spesso perpetrate dai black bloc. La novità è che erano adolescenti, alcuni tredicenni. Direi che è un fenomeno al tempo stesso molto grave e poco grave».

Perché?

«C’è stato un fattore psicologico, quello che possiamo definire “ebbrezza da distruzione”, fenomeno ben noto, soprattutto in tempi di guerra. Lo abbiamo riscontrato tra questi giovani che a un certo punto si sono sentiti in guerra contro la società francese. Con effetti contagiosi. Antropologicamente l’homo sapiens è anche homo demens. Lo vediamo con la guerra in Ucraina, lo abbiamo sperimentato in molte altre occasioni».

L’aspetto invece più grave?

«Tutto questo ci conferma una crisi di civiltà. In particolare in Francia dove è in atto un’opposizione radicale tra due parti ostili. Per il momento non c’è soluzione a queste crisi. La soluzione sarebbe un nuovo modo di pensare la politica. Purtroppo non c’è. Al contrario, è in atto una regressione democratica che sta colpendo altri paesi europei, accompagnata dal rischio di una società del controllo e della sottomissione resa possibile dalle tecnologie dell’informazione e dell’intelligenza artificiale».

Vede un parallelo con gli anni Trenta e l’ascesa degli estremismi?

«Negli anni Trenta c’erano il nazismo e lo stalinismo che, in quanto tali, non esistono più. Oggi ci sono estremismi che possiamo definire ultra-nazionalisti e di ultra-sinistra. Ma, a mio avviso, non è questo il nocciolo della questione. A partire dalla Rivoluzione francese, con alti e bassi, il nostro Paese ha vissuto lo scontro tra una Francia tradizionalista e reazionaria e una Francia progressista e repubblicana. Oggi c’è una Francia che si crede identitaria nei confronti di tutte le persone di origine immigrata. Uso il verbo “credere” perché invece la Francia, per la sua storia, è un paese multiculturale come l’Italia. Ha integrato alsaziani, bretoni e poi nell’Ottocento italiani, spagnoli, portoghesi. Nel giro di due generazioni, la maggioranza dei nuovi francesi si è integrata».

Per gli immigrati del Maghreb e dell’Africa è più difficile.

«Per gli algerini in particolare c’è il tema del colonialismo, il ricordo della lotta per l’indipendenza, oltre alla ghettizzazione delle popolazioni in Francia. Il razzismo esiste, non viene loro riconosciuto lo stesso livello di dignità. E non è escluso che questa Francia reazionaria, con il suo senso di presunta identità, la sua paura dello straniero e, in ultima analisi, la sua mancanza di democrazia, possa prevalere. È successo dopo la sconfitta del 1940, quando ha preso il potere sotto il regime di Vichy. Il campo democratico potrebbe essere sconfitto».

Come spiega l’odio che suscita Emmanuel Macron in una parte dei francesi?

«È normale criticare un presidente, ma trovo odioso insultarlo e denigrarlo nel modo in cui è stato fatto nell’ultimo periodo. La riforma delle pensioni è stata un errore imposto dalla tecno-burocrazia. Siamo dominati dalla logica del profitto ma questo succedeva già prima di Macron e vale per altri paesi come l’Italia. Poi è vero che il presidente Macron non ha saputo creare quella nuova via politica di cui parlavo. Ha davanti ancora qualche anno di presidenza, quindi si può sperare che lo faccia».

Ha citato la guerra in Ucraina. Vede spiragli per la pace?

«Sembra che il conflitto si trascinerà. Per quanto tempo? Non lo sappiamo, l’imprevedibile esiste. La rivolta di Prigozhin era inaspettata. Possono accadere fenomeni di dislocazione interni alla Russia. La mia esperienza dei conflitti inizia con la Prima guerra mondiale. Non ho partecipato ma ho conosciuto i combattenti, e so tutte le bugie diffuse all’epoca sui tedeschi. Poi ho conosciuto la guerra di Spagna, la seconda guerra mondiale, la guerra d’Algeria. Ogni conflitto è stato accompagnato da menzogne. Ci sono crimini terribili, ma anche illusioni e mistificazioni. Ed è quello su cui ho voluto allertare nel mio libro Di guerra in guerra ».

In Italia è appena uscito il suo ultimo saggio, “L’avventura del Metodo”.

«Volevo raccontare il percorso che mi ha portato a creare il Metodo, un’avventura intellettuale su diversi decenni. Il pensiero complesso che difendo ha sostenitori in tutto il mondo: in Italia, in Spagna, in Perù, e persino in Cina. Solo in futuro vedremo se riuscirà a eliminare quello che io chiamo pensiero riduzionista, unilaterale, manicheo, puramente matematico, che oggi regna».

Una volta ha detto: pensare la vita e vivere il pensiero.

«Vivere significa soprattutto avere relazioni umane. Amare, meravigliarsi, ribellarsi. Le relazioni amorose sono sempre state uno stimolo per il mio pensiero. E faccio la differenza tra vivere e sopravvivere. Sono scampato a varie morti che erano del tutto probabili. È stato il caso, il destino o forse la provvidenza. Vivere è sentire e sperimentare la poesia della vita, in comunione e con fervore. Per me il vero mistero è la vita, non la morte».

in “la Repubblica” del 16 luglio 2023

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