Adolescenti. Il fenomeno crescente degli “hikikomori”

ENRICO SCOCCIMARRO

Esistono ragazzi che non vogliono esistere. Non è una frase sconnessa, ma solo l’altra faccia della medaglia della socialità giovanile. Opposta a quella irrefrenabile tendenza ad uscire e fare amicizia, c’è una categoria di ragazzi che non varca la soglia di casa anche per anni. Si chiamano “hikikomori”, una parola giapponese che significa “stare in disparte”. Solo in Italia sono più di centomila. La cifra è una stima molto approssimata, dato che è basata solo sulle richieste di aiuto che riceve l’associazione “Hikikomori Italia”. Si tratta quindi di giovani, di età compresa tra i 14 e i 30 anni, che non vogliono esistere nella società. Si rinchiudono nella propria stanza per la paura di non essere stimati dagli altri.

Il fenomeno è stato descritto per la prima volta in Giappone, dove fino ad ora sono stati identificati oltre un milione di casi. Negli anni ‘80, negli ambienti scolastici del paese asiatico, si registrò il cosiddetto ijime: “perseguitare”, che consisteva nel prendere di mira un soggetto, isolarlo e ignorarlo al punto da renderlo invisibile.

Il fenomeno si espanse tanto da spingere un numero sempre più elevato di giovani al suicidio. Così, il governo attivò dei programmi di sensibilizzazione che ridussero notevolmente la gravità della situazione. Una sola conseguenza rimase: il ritiro graduale di questi ragazzi nelle proprie stanze, che diede vita a una tendenza sempre più diffusa. È in quel periodo che si comincia a parlare di hikikomori, da hiku, “tendere” e komoru, “ritirarsi”.

Per capire nel dettaglio il fenomeno, abbiamo intervistato proprio il presidente di questa associazione: lo psicologo Marco Crepaldi. È grazie a lui se oggi, in Italia, conosciamo questa categoria. Crepaldi, dopo aver conosciuto per caso il fenomeno, decide di scrivervi la tesi di laurea e di scoprire se e quanto fosse diffuso in Italia. Crea quindi un blog, dove in poco tempo arrivano numerosissime richieste di giovani fuggiti da relazioni, amici e scuola, che chiedono di mettersi in contatto fra loro. Poi arrivano anche le richieste da parte dei genitori. «In Italia ci sono anche casi di dieci o vent’anni vissuti in questa condizione — rivela al nostro giornale lo psicologo — talmente cronicizzati che bisogna solo cercare di farli star meglio, ma quasi sempre rifiutano ogni aiuto perché ormai hanno perso ogni speranza». Il “mostro” sociale, colpevole di questa idea che si insinua nella mente di questi ragazzi, è la competitività, che genera ansia da prestazione e giudizio sociale: un male che sembra allargarsi, se pensiamo agli ultimi casi di suicidi giovanili.

Secondo il presidente dell’associazione questo «sta aumentando, perché i social fanno crescere questo confronto a livello insostenibile. È una società costruita per le persone più estroverse e poco inclusiva per quelle introverse: chi è meno competitivo viene schiacciato». Chiaramente, il covid ha poi inciso sulla crescita del fenomeno. «Ha spinto quelli che erano in una condizione borderline a iniziare l’isolamento — spiega Crepaldi — e poi ad avere difficoltà a uscire, attuando comportamenti autolimitanti». Inoltre, c’è da considerare che nel 70-90 per cento dei casi gli hikikomori sono maschi. Secondo lo psicologo, questo è dovuto al fatto che gli uomini sembrano essere più solitari delle donne, più incapaci di costruire relazioni profonde, per via di un problema culturale: «Viene insegnato loro a sopprimere le emozioni e a non manifestare debolezze».

Ma quali sono le possibili soluzioni? Da parte dei genitori «la comprensione e la costruzione di un’alleanza che tenga conto delle capacità del figlio in quel momento. Se va ancora a scuola, trovare un percorso didattico personalizzato per l’impossibilità di stare in aula. Se non va più a scuola, eliminare le pressioni sul futuro o gli atteggiamenti iperprotettivi. Da persona esterna al nucleo familiare, invece — prosegue Crepaldi — bisogna farli confessare le proprie debolezze per poi spingerli a chiedere aiuto a uno psicologo». Ma la principale fonte di salvezza per questi giovani, come per la maggior parte di chi si sente in un angolo buio, è una: trovare il proprio demone, come dicevano i greci. Scovare quel fuoco che arde in ognuno di noi e che corrisponde alla nostra più grande passione e capacità. Sempre tenendo conto che sarebbe utile cambiare il paradigma di questa società: non mettere più al centro lo sviluppo economico, ma la felicità degli individui.

in L’Osservatore Romano, 14 aprile 2023

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