“Piano di adattamento ai cambiamenti climatici”. Un’urgenza ricordata anche dalla tragedia di Ischia

DANIELA FASSINI

Ha una sigla impronunciabile, è fermo in un cassetto dal 2017 ma il nuovo governo Meloni giura di adottarlo in men che non si dica. Addirittura entro il prossimo 31 dicembre, fra poco più di un mese. Un’accelerazione che ha molto l’aria di una “boutade”. Di vero purtroppo ci sono i morti, le tragedie come quelle di Ischia, sempre più frequenti in Italia. Drammi che si ripetono, mentre si succedono tanti governi di colore diverso. Si perché quello che è successo non è solo abusivismo e mancata manutenzione, in gioco c’è soprattutto il cambiamento climatico e quel Pnacc (il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici) che tutti fino a ieri hanno fatto finta di non vedere.

«Il ministro dell’Ambiente Pichetto Fratin si è impegnato ad adoperarsi affinché, chi di competenza, possa definire il Piano nazionale per l’adattamento al cambiamento climatico entro il 31 dicembre quest’anno, perché non si può dare vita alla prevenzione se prima non si conosce la previsione del rischio» ha detto ieri il ministro per il Sud, Nello Musumeci. «È una storia incredibile che sia stato avviato nel 2016, presentato qualche anno dopo ma ancora l’apposita commissione non ha dato l’approvazione defintiva».

L’Italia oggi ha solo una Strategia nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, entrata in vigore nel giugno 2015. La Strategia riporta le conoscenze disponibili sui cambiamenti climatici, le azioni da adottare e gli attori che devono adottarle. Il Piano invece stabilisce la governance per l’attuazione degli interventi, l’allocazione dei fondi e il monitoraggio e la valutazione delle azioni. In realtà, la corsa entro fine anno «si può fare». Perché ormai è tutto pronto. Ne è convinto Antonello Fiore, presidente della Società italiana di geologia ambientale. «Non è che poi con il Piano risolviamo tutto – premette il geologo ambientale -.

Il piano nazionale di adattamento è un piano che dovrebbe rendere efficace la strategia nazionale che è del 2015, poi però abbiamo bisogno dei piani di indirizzo regionale e più locali, in base alle caratteristiche del territorio con la possibilità quindi di valutare tutti gli effetti del cambiamento climatico sull’uomo e sui luoghi in cui vive e lavora ». Ma non c’è solo il Piano a preoccupare i geologi. C’è infatti anche la Carta geologica nazionale (Carg) che rischia di rimanere al palo, dopo due anni di avanzamento serrato dei lavori. Nell’ultima manovra di bilancio, infatti, non ce ne sarebbe ombra. È a rischio, per assenza di nuovi finanziamenti, il suo completamento, sottolinea l’Istituto superiore per la ricerca e la protezione ambientale (Ispra) «e con essa la conoscenza del suolo e del sottosuolo nazionale, indispensabile per riuscire a contenere i disastri, mettere in sicurezza i territori e procedere ad un’idonea pianificazione urbanistica».

Ogni singolo foglio della Carta, infatti, contiene la possibilità di ricavare informazioni oggi più che mai preziose. «Si parla di pianificazione del territorio ma senza la carta geologica è un controsenso » aggiunge Fiore. Negli ultimi 50 anni l’Italia conta 1.610 vittime causate da frane e inondazioni, 42 dispersi e 1.875 feriti. Da inizio anno contiamo già 40 morti fra alluvioni e frane. «Quella di Ischia è una tragedia annunciata che ha cause e responsabilità precise – punta il dito il Wwf –. Suona come una grande ipocrisia piangere le vittime di questi giorni, quando si continua a costruire dove non si dovrebbe, si continua a strizzare l’occhio a possibili condoni edilizi e non si approva in tempi rapidissimi una legge sul consumo di suolo».

Una legge di cui si discute dal 2012. In Italia ogni secondo vengono cementificati due metri quadrati di suolo e solo gli edifici occupano ormai 5.400 km quadrati, una superficie pari alla Liguria. Dal 2000 al 2019 il dissesto idrogeologico ha causato 438 morti in Italia, secondo i dati Cnr-Irpi. «Un milione e 300mila cittadini italiani vivono in aree a rischio frane e molti di più a rischio alluvione » ricorda anche Italia Nostra.

«È tempo di dire ai cittadini che vivono nelle zone più drammaticamente fragili del territorio che le loro case vanno delocalizzate e che nelle aree a rischio non si potrà mai più costruire». Ma anche di contrastare l’abusivismo e rendere efficace la programmazione e la gestione del territorio. L’aspetto generale più importante, ritorna a sottolineare Antonello Fiore, «è quello culturale: manca la percezione del pericolo e del rischio. Chi investe tutti i suoi averi per costruire una casa come a Limone Piemonte in una zona che sa di essere pericolosa (ricorderete la villa distrutta, scivolata nel fiume con l’alluvione di due anni fa, ndr) c’è una mancanza di consapevolezza e c’è un problema culturale che deve essere sanato ».

Bisogna partire dai più piccoli, dai nostri figli. Insegnare l’educazione ambientale a scuola, suggerisce il geologo. «Bisogna anche far sì che i piani di protezione civile vengano comunicati alla popolazione – aggiunge –. Ogni Comune si deve per legge dotare del piano di Protezione civile che deve essere aggiornato e trasferito alla popolazione e si deve avere la certezza che la popolazione l’abbia recepito. Bisogna educare, bisogna informare».

Il 18,4% della superficie nazionale è classificato nelle classi a maggiore pericolosità per frane e alluvioni. Nelle aree a pericolosità da frana elevata o molto elevata si trovano 565mila edifici (il 3,9% del totale in Italia), 84mila imprese di industrie e servizi (1,8%), oltre 12mila beni culturali (quasi il 6% di quelli esistenti). «Sono ben 55.609 i chilometri quadrati classificati a pericolosità da frane elevata o molto elevata e/o pericolosità idraulica media (Ispra). Se si considera il rischio alluvioni, circa 2,4 milioni di abitanti vivono nelle aree a pericolosità elevata – dato che sale a 6,8 milioni per le aree classificate come a media pericolosità.

in “Avvenire” del 29 novembre 2022

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