Suicidi in carcere politica assente

LUIGI MANCONI

Quale e quanta distanza corre tra i riti e le simbologie della politica e il corpo di MB, impiccatosi utilizzando come cappio i pantaloni della tuta e quello di DS, soffocatasi inalando gas dal fornelletto dove si cucina il cibo? In altre parole, cosa c’è di più “eccentrico”, rispetto alla campagna elettorale in corso, della notizia relativa all’altissimo numero di suicidi che si registra nelle carceri italiane?

Il fatto non ha trovato alcuna eco nel confronto politico tra i partiti che si contenderanno la vittoria il prossimo 25 settembre. Così come non hanno trovato il minimo spazio le tematiche relative all’amministrazione della giustizia, alla riforma del processo penale e di quello civile, al significato della pena e della “rieducazione del condannato” (Art. 27 della Costituzione), in una società sempre più attraversata e lacerata da mille conflitti e in un sistema carcerario dove i reclusi in attesa di un giudizio definitivo rappresentano oltre il 13% del totale.

In questo scenario, dal primo gennaio del 2022 a oggi, si sono tolti la vita 59 detenuti. E a morire sono anche le donne: quattro nell’arco di poche settimane. Di conseguenza, il già elevatissimo tasso di suicidi (ovvero il rapporto tra numero di decessi e presenze nel corso di un anno) di oltre 11 casi per 10.000 detenuti, tende a crescere ulteriormente, fino a raggiungere prevedibilmente un macabro record.

Tanto più se si considera che in Italia, fuori, tra i “liberi”, quel tasso è di 0,67 ogni 10.000 abitanti. Perché questo dato, unanimemente trascurato, merita attenzione? Intanto, perché conferma quella definizione che equipara il carcere a una “discarica sociale”, dove si addensano tutte le patologie e le dipendenze, tutte le crisi psichiche e le devianze sociali, tutti i processi di annichilimento della personalità e di esaurimento del significato dell’esistenza. E, tuttavia, non si tratta esclusivamente di una emergenza umanitaria, alla quale dedicarsi con il sentimento della compassione e con gli strumenti delle riforme sociali. Il carcere, infatti, è qualcosa di più. È il punto finale di caduta di un sistema esteso e articolato, quello dell’amministrazione della giustizia, che percorre l’intera vita sociale e la condiziona in profondità. Il carcere, con tutta la sua miseria, mostra l’insensatezza di quel sistema della giustizia. E i suicidi ne sono la “rivelazione” ultima.

È per questo che quella dell’autolesionismo non è questione filantropica, ma politica, politicissima. Ne è conferma un altro dato: nel corso di undici anni, dal 2011 a oggi, si sono tolti la vita 78 agenti di Polizia Penitenziaria, il numero più alto tra gli appartenenti alle diverse forze di polizia. Confondere i due gruppi di suicidi sarebbe errato: i poliziotti penitenziari vivono all’interno degli istituti esclusivamente il tempo di lavoro, anche se — ricordiamolo — è un tempo frequentemente maggiorato da turni assai lunghi e da straordinari obbligatori.

Detto che ogni suicidio è una storia a sé e che le motivazioni di ciascun gesto autolesionista sono complesse e spesso non decifrabili, sembra indubbio che il carcere costituisca un sistema patogeno: ossia che produce malattia, psicosi, morte. A partire dalla sua struttura fisico-materiale, così immanente e coercitiva e così incombente, assillante e totalizzante.

Di quelle 59 persone suicidatesi nel corso dell’anno, documenta Antigone, almeno 18 soffrivano di patologie psichiatriche; e la maggior parte si trovavano in carcere da pochi giorni o settimane. Il che conferma un dato già conosciuto: la spinta al suicidio è strettamente collegata al primo impatto col carcere. Alla necessità, cioè, di misurarsi senza alcuna tutela con un universo di cui tutto si ignora: il linguaggio, le gerarchie, le regole di comportamento e i codici di relazione. L’estraneità a quell’universo sconosciuto, avvertito come ostile e senza scampo, induce a cercare la fuga nell’unico modo consentito.

Altra correlazione particolarmente intensa è tra indici di sovraffollamento e numero di suicidi: laddove le presenze eccedono la capienza regolamentare, i suicidi sono più frequenti. Per queste ragioni, ho definito la vicenda dei suicidi in carcere come totalmente eccentrica rispetto alle tematiche e ai programmi della campagna elettorale. Chi si batte per farla entrare nell’agenda politica è Rita Bernardini, arrivata al suo ventesimo giorno di digiuno: avrete notato che non ha trovato posto in alcuna lista.

in “la Repubblica” del 8 settembre 2022

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