Povertà educativa e sociale. L’Italia nello scenario europeo dell’esclusione minorile

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Il contesto di riferimento

L’emergenza causata dalla pandemia da Covid-19 ha prodotto notevoli effetti negativi sul benessere economico e sociale di famiglie e minori. Le ripercussioni più gravi le hanno subite i minori provenienti da contesti svantaggiati in quanto i gruppi a basso e medio reddito sono maggiormente esposti al rischio di disoccupazione e di emarginazione.

Nell’Unione europea quasi 18 milioni di minori sono a rischio di povertà o di esclusione sociale , con differenze significative tra gli Stati membri. La disparità di accesso ai servizi fondamentali, essenziali per il benessere e lo sviluppo delle competenze cognitive, emotive e sociali dei minori, è sicuramente la principale causa di esclusione sociale. I minori che vivono in condizioni di povertà o provengono da contesti di estremo disagio hanno maggiori probabilità di incontrare ostacoli nell’accesso alla cura della prima infanzia, a un’istruzione inclusiva, all’assistenza sanitaria, a un’alimentazione sana e a un alloggio dignitoso. Iniziare la propria vita in condizioni sfavorevoli segna inevitabilmente le prospettive future di questi minori.

È facilmente prevedibile che la crisi continuerà a marcare le disuguaglianze già esistenti e che, probabilmente, comporterà un aumento del numero delle famiglie a rischio di povertà o di marginalizzazione. Essa esercita, inoltre, una notevole pressione sulla disponibilità dei servizi: l’apprendimento a distanza, ad esempio, si è rivelato difficile per molti minori che vivono in famiglie disagiate o in zone remote, rurali o con infrastrutture digitali quasi del tutto assenti.

L’utilità di politiche e investimenti che tendano a ridurre lo svantaggio sin dai primi anni si può osservare da un duplice punto di vista: vi è un ritorno ‘sociale’ poiché si contribuisce, in tal modo, all’inclusione dei minori e ad aumentare le loro possibilità di raggiungere in età adulta condizioni socioeconomiche più soddisfacenti e di partecipare attivamente alla vita civica e democratica, ma anche un ritorno ‘economico’ perché immettere nel mercato del lavoro giovani leve preparate e formate significa facilitare la transizione dalla scuola al lavoro, ridurre la mancanza di competenze e di manodopera e adeguare il mercato alle necessità emergenti, come quelle implicate dalle transizioni verde e digitale. Investire nelle pari opportunità per i minori getta le basi per una crescita sostenibile e inclusiva, rendendo, così, le società più eque e resilienti.

Alla luce di queste considerazioni si rende necessaria un’importante azione sinergica e multidimensionale di contrasto alla povertà economica e educativa, di promozione di pari opportunità per i minori a rischio di povertà, di sostegno all’inclusione sociale dei minori, azioni che si muovano sotto un unico filo conduttore: la cooperazione a tutti i livelli. Un approccio integrato che, oltre a garantire l’accesso ai servizi fondamentali in tutte le regioni e in tutti i territori dell’Unione, anche attraverso investimenti nelle infrastrutture dei servizi e nella forza lavoro, vada a migliorare l’efficacia e la pertinenza delle politiche correlate, combinare misure preventive e correttive e sfruttare al meglio gli strumenti esistenti.

Per poter meglio tutelare i bambini e i loro diritti e farli diventare ‘centrali’ nella elaborazione delle politiche europee, la Commissione europea, lo scorso 24 marzo, ha adottato la prima Strategia generale dell’UE sui diritti dei minori, nonché una proposta di Raccomandazione del Consiglio che istituisce una Garanzia europea per l’infanzia – Child Guarantee. Le due iniziative trovano l’ubi consistam nell’articolo 12 della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo2 e nell’articolo 24 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea3 e nascono in una logica di processo bottom-up, in quanto alla loro elaborazione si è addivenuti dopo ampie consultazioni con i cittadini, le parti interessate e, soprattutto, dopo aver ascoltato oltre 10.000 bambini, partendo dall’assunto fondamentale che nessuna politica in materia di bambini dovrebbe essere concepita senza la loro voce. Entrambe le azioni sono finalizzate, per il periodo 2021-2024, alla progettazione e al potenziamento di azioni che tutelino e sostengano i diritti dei minori.

In questo particolare momento storico caratterizzato da una Europa già segnata da profonde diseguaglianze, acuite ed estremizzate dalla pandemia da Covid-19, vi è una rinnovata attenzione al mondo dei minori e alla necessità di cogliere le sfide economiche e tecnologiche della società. Attenzione che può, e deve esser tradotta, in azioni concrete considerata la grossa mole di stanziamenti che per la prima volta l’Unione europea ha messo a disposizione degli Stati membri per aiutarli ad uscire dalla crisi.

Alcuni dati per un confronto Italia-Europa sulla condizione dei minori più svantaggiati

Nel 2020 la popolazione italiana nella fascia di età 0-14 anni costituisce il 13% del totale, in calo di un punto percentuale nell’ultimo decennio e leggermente inferiore alla media UE-28 che resta sostanzialmente stabile intorno al 15,6% (Eurostat – DEMO_PJANIND), confermando il lento ma incessante invecchiamento demografico del Paese.

All’interno di questo segmento di giovanissimi, nello scorso decennio in Italia i bambini con meno di 6 anni a rischio di povertà o esclusione sociale hanno rappresentato costantemente il 30% circa del totale, pur scendendo al 25,6% nel 2019, ultima annualità in cui il dato è disponibile, con un ritardo rispetto agli altri Paesi UE-28 che si aggira intorno ai 5 punti percentuali nel periodo considerato (Eurostat – ILC_PEPS01). Come è possibile osservare nella figura che segue, tale rischio non è equamente distribuito nella popolazione, ma in Italia come in Europa esso si concentra nelle famiglie con basso capitale culturale, sebbene non sia da trascurare come esso riguardi anche quasi un bambino su dieci fra i figli di genitori laureati.

In questo contesto, particolarmente grave è l’incidenza delle famiglie con almeno un figlio minore che vivono in condizioni di povertà assoluta. Nel 2020, a valle di un periodo di crescita, tale tasso ha toccato l’11,5%, il valore massimo da quindici anni a questa parte, mentre nel triennio che precede la crisi del 2008 il tasso era fisso su valori inferiori al 3%. Per il 2020 l’Istat ha stimato in 1,3 milioni il numero di minori che patiscono questa condizione (Istat 2021). Come spesso accade, la situazione appare critica soprattutto nel Mezzogiorno, dove questa incidenza aveva raggiunto un picco del 14,4% nel 2018, circa 5-6 punti percentuali in più rispetto ai valori registrati rispettivamente al Centro e al Nord del Paese nello stesso anno4 .

Il dato sulla povertà si riflette naturalmente anche sulla precarietà delle condizioni abitative in cui i minori italiani si trovano a vivere. Nel 2019 era ben il 41,6% di loro ad abitare in case sovraffollate, una percentuale cresciuta di 7 punti nell’ultimo decennio e praticamente il doppio della media UE-28 (Eurostat – TESSI171). Stabile attorno al 10% nell’ultimo decennio, invece, e in linea con la media UE28 è il tasso di minori che vivono in famiglie in cui le spese per l’abitazione, al netto delle agevolazioni, erodono oltre il 40% del reddito disponibile (Eurostat – TESSI161), mentre è in decisa diminuzione quello di chi vive in abitazioni in cattive condizioni: dal 23% del 2011 si è passati al 12,8% del 2019, al di sotto della media UE-28 che invece si ferma al 14,4% (Eurostat – ILC_MDHO01C).

Assai delicata è anche la situazione dei minori figli di stranieri. Mentre per quelli con genitori italiani, infatti, il rischio di povertà è rimasto stabile nell’ultimo decennio intorno al 23% (comunque più alto di 4-5 punti rispetto alla media UE-28), per i minori con genitori stranieri tale rischio è sensibilmente più elevato nel periodo considerato, con punte di oltre il 40% fra il 2015 e il 2018, finestra durante la quale la forbice con l’UE-28 si è allargata, per poi tornare ad avvicinarsi nuovamente alla media europea nel 2019, attestandosi al 33,9%, cioè su valori simili a quello registrato nel 2013, anno in cui si era raggiunto il livello più contenuto dopo un periodo di discesa (Eurostat – ILC_LI33).

Analogamente, in linea con la media UE-28, l’1,7% dei minori di 16 anni in Italia nel 2017 riportava di aver rinunciato a visite mediche nonostante la gratuità del servizio sanitario nazionale, tasso che sale al 4,6% (+2% rispetto alla media UE-28) fra le famiglie che vivono al di sotto della soglia di povertà relativa al 60% del reddito mediano equivalente, e addirittura al 7,2% fra i figli degli immigrati (Eurostat – ILC_HCH14). Fra le ragioni dietro a questa rinuncia primeggiano i costi economici, indicati da quasi l’87% dei rispondenti, cui seguono i tempi di attesa con il 10,8% (Eurostat – ILC_HCH15).

Soffermando l’attenzione sulla povertà educativa, invece, si osserva che la quota di bambini fino a tre anni che non accedono ai servizi per l’infanzia né sono coinvolti in percorsi di istruzione formale ammonta al 73,7% del totale nel 2019, un dato che non subisce grosse variazioni nell’ultimo decennio al netto di alcune fluttuazioni, e regolarmente al di sotto della media UE-28 di circa 5-6 punti percentuali. Va ricordato che l’accesso a tali servizi in Italia è solo parzialmente sostenuto dallo Stato, peraltro con enormi disparità territoriali. Non a caso, passando alla fascia di popolazione in età compresa fra i 3 anni e l’età minima di ingresso alla scuola dell’obbligo, la quota di bambini che non accedono a questi servizi tendenzialmente gratuiti per le famiglie crolla al 6,8% nel 2019 (la media UE28 è quasi il doppio), mentre sono il 76,6% coloro che frequentano per almeno 30 ore, ben 20 punti percentuali in più rispetto alla media UE-28 (Eurostat – ILC_CAINDFORMAL)

Tuttavia le condizioni economiche delle famiglie italiane rendono comunque difficoltoso il pagamento delle spese legate ai servizi educativi: nel 2016, infatti, erano il 15% i minori che vivevano in famiglie che avevano espresso moderate o grosse difficoltà a sostenere tali costi, un dato superiore di 3 punti alla media UE-28 (Eurostat – ILC_ATS03); se poi prendiamo in considerazione solo i percorsi di istruzione formale, notiamo che nelle famiglie che vivono con meno del 60% del reddito mediano equivalente sono addirittura il 39,9% le persone di riferimento che asseriscono di avere moderate o grosse difficoltà nel sostenere spese quali tasse di iscrizione, libri, viaggi di istruzione, servizio mensa e via dicendo (Eurostat – ILC_ATS07).

Poco incoraggiante è anche il dato sulle competenze rilevato dai test PISA nel 2018: se gli studenti del nostro Paese a 15 anni fanno registrare punteggi in matematica in linea con la media dei Paesi OCSE, d’altro canto le loro abilità in lettura e scienze sono inferiori a quelle dei coetanei negli altri Paesi, e sistematicamente più bassi sono i punteggi che i quindicenni con background migratorio fanno registrare rispetto ai nativi italiani di pari età.

La situazione non migliora andando ad esaminare gli anni iniziali della transizione dalla scuola al lavoro, che sono cruciali in quanto in grado di indirizzare in maniera decisiva i percorsi di passaggio alla vita adulta. Dal 2009 ad oggi, il tasso di giovani fra i 15 e i 24 anni che non studiano e non lavorano (NEET) è rimasto stabile intorno al 20%, con un picco del 22% nel 2014, mentre la discesa iniziata nel 2015 si è interrotta nel 2020, anno in cui questa quota è risalita al 18,9%, toccando un valore molto simile a quelli osservati nei primi anni successivi alla crisi del 2008. In tutto il periodo considerato, il dato italiano supera sempre la media UE-27, con un divario che è andato ampliandosi fino al 2014, attestandosi poi intorno all’8-9% (Eurostat – LFSI_NEET_A).

Per quanto riguarda gli abbandoni scolastici, ossia la quota di 18-24enni che hanno lasciato gli studi con al più il diploma di scuola secondaria di primo grado e che non sono impegnati in percorsi di istruzione e/o formazione al momento dell’intervista, sebbene dal 2000 a oggi la tendenza alla riduzione del fenomeno sia proseguita senza interruzioni (per l’Italia si è passati dal 22,1% del 2005 al 13,1% del 2020), si osserva ancora una volta, tuttavia, un ritardo del nostro Paese rispetto alla media UE-28 di 4-5 punti percentuali nel periodo considerato (Eurostat – EDAT_LFSE_14).

(Questo brano è tratto dal paper indicato di seguito, pp. 6-12)

Per saperne di più vedi Paper INAPP, Dal Sistema di garanzia dell’infanzia ai Patti educativi di comunità, 2021