Gli italiani e il massacro di Addis Abeba. “Il giorno dei martiri”

Vincenzo Passerini

Ieri ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia, si è ricordato, con cerimonie, discorsi e preghiere, il “Giorno dei martiri”. Ci riguarda direttamente, ma l’Italia dimentica. Il 19 febbraio 1937, secondo il calendario etiope Yekatit 12, gli italiani, che avevano invaso il Paese, sanguinosamente conquistato nel maggio dell’anno precedente, diedero inizio alla strage di Addis Abeba. In tre giorni massacrarono 20 mila civili etiopi inermi: bambini, donne, giovani, uomini, vecchi, malati. Con ogni mezzo e nei modi più crudeli. Una delle più spaventose carneficine del colonialismo in Africa. Raccontò un medico straniero che in quei tre giorni d’inferno assistette feriti e compose cadaveri: “Non vi è un mezzo per distruggere la vita umana che non sia stato utilizzato”.

Ma quella spaventosa strage del regime fascista, così come altre, non vogliamo ricordarla. E coltiviamo la falsa memoria di un colonialismo italiano “buono”, fatto di strade e di ponti. Ma fu feroce e si macchiò dei più orrendi crimini. Quando oggi parliamo di “invasioni” da parte degli africani, perché non ricordiamo le nostre invasioni in Africa? Non a mani nude e sui barconi. Ma coi fucili e le mitragliatrici, con le cannoniere e gli aerei da cui veniva buttato il gas sui villaggi per bruciarne gli abitanti. Con i campi di concentramento e i massacri. La strage di Addis Abeba.

Il 19 febbraio 1937, per festeggiare la nascita dell’erede di casa Savoia (Vittorio Emanuele, figlio di Umberto), il generale Rodolfo Graziani, viceré d’Etiopia, criminale di guerra noto come il “macellaio”, invitò per una cerimonia, nel cortile della sua residenza, notabili e poveri, com’era costume locale. Circa tremila etiopi. Due patrioti eritrei lanciarono bombe contro il palco e ferirono Graziani. Non ci furono morti. Ma subito si scatenò la follia vendicativa degli italiani. Si diede ordine di mitragliare la folla dei poveri e dei notabili assiepata nel cortile. Per loro non vi fu scampo. Furono uccisi tutti tremila, anche a colpi di pistola e baionetta. Ma non finì lì. All’esercito, ai carabinieri, alla milizia fascista fu data “carta bianca”: uscite in città e uccidete, sterminate, incendiate, l’impunità è garantita. I massacri durarono tre giorni ad Addis Abeba. Bambini furono gettati nelle case e nelle capanne in fiamme. Prigionieri furono schiacciati coi carri armati. Anche i civili italiani parteciparono alla strage.

Ciro Poggiali, fascista, inviato del “Corriere della sera”, scrisse nel suo diario, pubblicato però soltanto nel 1971: “Tutti i civili che si trovano ad Addis Abeba … hanno assunto il compito della vendetta condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada… vedo un autista che dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara ed innocente… Episodi orripilanti di violenze inutili…In tutta la città massacrarono tantissime persone. Orribile. Una vergogna per l’Italia”( C. Poggiali, “Diario AOI 15 giugno 1936- 4 ottobre 1937”, Longanesi, 1971, pp. 182-184).

Proprio “una vergogna italiana” è il sottotitolo del documentatissimo libro che Ian Campbell, studioso inglese della storia etiope e del colonialismo italiano, ha dedicato alla strage (“Il massacro di Addis Abeba. Una vergogna italiana”, Rizzoli, 2018), e che dovrebbe essere letto da chiunque voglia conoscere la verità sul nostro colonialismo. Campbell ha calcolato in circa 20.000 i morti etiopi in quei tre giorni. Una Marzabotto moltiplicata per dieci volte. Ma una Marzabotto rimasta impunita, senza processo, senza giustizia. Come rimasero impunite le altre stragi.

Alla caccia dei due patrioti eritrei responsabili del fallito attentato a Graziani, l’esercito italiano si macchiò nei mesi seguenti di un altro orrendo crimine. Tra il 20 e il 29 maggio accerchiò il monastero di Debre Libanos, il più importante del Paese, un vasto complesso di edifici e capanne che accoglieva monaci, seminaristi e pellegrini attorno al più grande e popolare santuario cristiano- copto della Chiesa etiope. Ritenendo che a Debre Libanos avessero trovato rifugio i due attentatori, su ordine di Mussolini gli italiani sterminarono tutti i monaci, i seminaristi e i pellegrini: 2000 persone. Un eccidio che si cercò di occultare. Recentemente lo storico Paolo Borruso ne ha fatto una meticolosa e implacabile ricostruzione (“Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia”, Laterza, 2020).

La strage di Addis Abeba e quella di Debre Libanos, così come tante altre dell’epoca fascista, rimasero impunite. Graziani non fu chiamato mai a rispondere dei suoi crimini e nel dopoguerra divenne presidente onorario del Movimento Sociale Italiano. Partito i cui eredi spadroneggiano oggi per l’Italia e non perdono occasione per criminalizzare gli immigrati africani. Avevamo invaso l’Africa proclamando, con la benedizione della Chiesa e di tutto il popolo italiano, che andavamo a portarvi il cristianesimo e la civiltà. In Etiopia, dove il cristianesimo aveva radici antichissime, portammo la barbarie.

Furono gli etiopi a darci una lezione di civiltà e di cristianesimo. Quando l’imperatore d’Etiopia, Hailé Sellasié, tornò ad Addis Abeba, dopo la sconfitta italiana del 1941, disse: “Non ripagate dunque il male con il male: Non vi macchiate di atti di crudeltà, così come ha fatto sino all’ultimo istante il nostro avversario”. Così avvenne, non un capello fu torto agli italiani. Che lezione. Che memorabile lezione. Chi erano i selvaggi? Chi i civili? Chi i cristiani? Chi sono oggi di fronte a tanti atti di razzismo, di inciviltà, di disumanità che attraversano la nostra penisola i selvaggi, i civili, i cristiani?

Il 19 febbraio, Yekatit 12, deve diventare il “Giorno dei martiri” anche per l’Italia, che mai ha chiesto scusa per quel crimine. Mai ha fatto i conti con la propria barbara invasione dell’Africa. Mai ha fatto i conti con il proprio debito di verità e di giustizia con i popoli africani.

in “Trentino” del 20 febbraio 2020