Archivio Vaticano. A disposizione degli storici i fascicoli tra il 1939-1958 (Pio XII)

GIAN LUIGI VECCHI

I 28 vagoni piombati partono dalla stazione Tiburtina di Roma nel pomeriggio del 18 ottobre 1943, il treno arriverà alla Judenrampe di Birkenau (Auschwitz) la sera del 22. I deportati sono 1.022: 1.021 ebrei e una cattolica che non ha voluto abbandonare la signora anziana della quale si prendeva cura. Torneranno in sedici. Il più piccolo ha un giorno, è nato la notte del 17 nel Collegio militare di via della Lungara, a due passi da San Pietro, dove gli ebrei romani, gli «ebrei del Papa» rastrellati dai nazisti nella razzia del 16 ottobre, sono rimasti trenta ore senza cibo nella speranza che accadesse qualcosa che non accadde mai.

Bisogna partire da qui, dal buco nero di quelle due notti, per capire l’attesa planetaria che accompagna l’apertura degli archivi del pontificato di Pio XII, e in particolare quelli relativi alla Seconda guerra mondiale e alla Shoah. Papa Francesco lo aveva annunciato l’anno scorso e adesso ci siamo: il 2 marzo — ottantunesimo anniversario dell’elezione di Eugenio Pacelli nonché giorno del suo compleanno — i documenti dell’intero pontificato saranno a disposizione degli storici di tutto il mondo.

Ci sono voluti tredici anni per ordinare sedici milioni di fogli, più di quindicimila buste e duemilacinquecento fascicoli dal 1939 al 1958. Ed ora, si spiega in Vaticano, è arrivato il momento della pazienza, di «un lungo lavoro di studio e analisi, come ben sanno gli storici». È «un’illusione» da inesperti pensare che il 2 marzo o nei giorni successivi sapremo la verità. Perché non si troverà né esiste la «pistola fumante», il documento capace di risolvere da solo il conflitto decennale intorno ai «silenzi» di Pio XII, a dire l’ultima parola su un pontificato complesso e tragico, segnato dagli anni più spaventosi del Secolo breve e sospeso tra la «leggenda nera» del «Papa di Hitler» e la versione rosea del «Defensor civitatis» senza dubbi né ombre.

Molti sono convinti che l’essenziale fosse già contenuto nella «sintesi» pubblicata nel 1965 in undici volumi, gli Actes et documents du Saint Siège relatifs à la Seconde guerre mondiale. Ma certo agli storici non poteva bastare. Da una parte chi giustifica i silenzi di Pio XII con la necessità di tutelare un’opera nascosta di salvataggio di migliaia di ebrei, dall’altra chi non può accettare l’attesa vana di un suo intervento il 16 ottobre, il silenzio sullo sterminio anche dopo la fine della guerra.

L’Archivio segreto vaticano, ribattezzato Archivio apostolico per volontà di Francesco, contiene molto altro e aiuterà ad approfondire le ricerche. Agli studiosi verranno aperti anche gli archivi storici della Segreteria di Stato, dell’ex Sant’Uffizio, di Propaganda Fide, della Congregazione per le Chiese orientali, della Fabbrica di San Pietro e degli altri dicasteri vaticani. Monsignor Sergio Pagano, prefetto dell’Archivio, ha spiegato che in particolare sarà a disposizione il «documentario» della Segreteria di Stato per il periodo 1939-1958, 151 mila «posizioni», ciascuna composta da «decine di fogli», con relative descrizioni informatiche e 68 volumi di indici su carta.

Oltre al fondo ordinario ci sono 538 «buste separate» per singoli temi, le «Carte Pio XII» con i manoscritti di Pacelli e tre «fondi» speciali. Alla documentazione della Segreteria di Stato si aggiunge tra l’altro quella delle rappresentanze diplomatiche in tutto il mondo: 81 indici per oltre 5.100 buste, consultabili nella rete intranet dell’Archivio. La sfida è dunque aperta. Francesco l’ha presentata così: «La seria e obiettiva ricerca storica saprà valutare nella sua giusta luce, con appropriata critica, momenti di esaltazione di quel Pontefice e, senza dubbio, anche momenti di gravi difficoltà, di tormentate decisioni, di umana e cristiana prudenza, che a taluni poterono apparire reticenza, e che invece furono tentativi, umanamente anche molto combattuti, per tenere accesa, nei periodi di più fitto buio e di crudeltà, la fiammella delle iniziative umanitarie, della nascosta ma attiva diplomazia, della speranza in possibili buone aperture dei cuori».

in “Corriere della Sera” del 20 febbraio 2020