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Fake news. Una potente modalità di manipolazione culturale, politica, sociale

ALDO FRIGERIO

1. Che cosa sono le fake news?

Una possibile definizione

Non esiste una definizione condivisa di fake news, tanto che c’è qualcuno che propone addirittura di smettere di usare il termine vista la confusione a cui dà luogo. Tuttavia molti studiosi sarebbero pronti ad accettare la definizione che ne dà Galeotti (2019): le fake news sono a) notizie false b) diffuse tramite i media, specialmente i nuovi media, c) con l’intento di manipolare le opinioni delle persone in contesti politici polarizzati oppure di attrarre l’attenzione in modo da aumentare i click su certe pagine e su certi link così da trarne un profitto economico.

Questa definizione sottolinea che le fake news sono un sottoinsieme delle notizie false: non ogni notizia falsa è una fake news, perché esistono molti casi in cui chi diffonde false notizie non lo fa intenzionalmente. Chi fabbrica fake news invece lo fa deliberatamente con l’obiettivo di ingannare il pubblico in modo da ingenerare false credenze (Gelfert, 2018). Bisogna ovviamente ricordare che la verità o falsità delle notizie è una questione di grado e che ci sono notizie completamente false, notizie parzialmente false, notizie solo imprecise, ecc. Quindi, parlare di notizie false è solo un’utile semplificazione che qui adotteremo per denotare quelle notizie che hanno un grado di falsità tale da non poter più essere classificate come solo imprecise.

Un secondo punto importante di questa definizione è che le fake news sono news: esse sono diffuse tramite i media in modo da sembrare vere notizie. Da questo punto di vista le fake news si distinguono dal pettegolezzo e dal passaparola: sebbene ci siano delle analogie fra pettegolezzo e fake news, i pettegolezzi non sono di solito presentati in forma di notizia.

Il terzo punto importante della definizione riguarda il ruolo centrale che hanno i nuovi media (soprattutto i social network) nella diffusione delle fake news: tali media sono potenti diffusori di fake news sia per la quantità di persone che riescono a raggiungere che per la velocità con cui le fake news vengono trasmesse.

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Raccontare la vita: la proliferazione delle narrazioni sui social media

NICOLA LA SALA

Il racconto fa parte dell’uomo perché narrare significa oggettivare l’esistenza, i sentimenti che in essa emergono, le emozioni che suscita attraverso l’incessante scorrere degli eventi e delle storie. Questa tensione narrativa sembra oggi rafforzarsi, non sempre con esiti positivi, grazie anche alla diffusione dei social.

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Nell’ultimo anno e mezzo, caratterizzato dall’emergenza sanitaria causata dalla pandemia da Covid-19, si è amplificato il già massiccio utilizzo di strumenti e ambienti digitali nella comunicazione tra le persone, ma soprattutto si è vista emergere una diffusione esponenziale di storie e racconti su pagine e profili social, che sta contribuendo a costruire una sorta di narrazione universale in cui ognuno rappresenta se stesso e i cambiamenti del proprio vivere, ma allo stesso tempo descrive i tratti culturali di un mondo globale nel quale siamo sempre di più tutti connessi.

È importante allora chiedersi perché le persone decidono di utilizzare le nuove tecnologie comunicative per soddisfare questa tensione innata a raccontare e raccontarsi.

Una prima motivazione potrebbe essere ritrovata nel desiderio di superare la condizione di solitudine dell’uomo contemporaneo. Una crescente solitudine che appartiene al nostro tempo e che attanaglia gli individui intrappolati in uno scenario di desertificazione sociale, dove si assiste continuamente a tentativi subdoli e pervasivi di recintare qualsiasi cosa.

Eppure, nonostante questa tensione incessante a innalzare confini e favorire separazioni e divisioni, gli spazi della rete e dei social media si sono riempiti di persone che cercano comunque di incontrare l’altro, di rinsaldare legami esistenti e/o crearne di nuovi. Accanto a questo desiderio di relazione, il binomio narrazione – social media può trovare un suo fondamento anche nella cultura del narcisismo, che mette al centro l’individuo e la condivisione indiscriminata di ogni aspetto della propria esistenza.

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Hate speech (incitamento all’odio), libertà di espressione e democrazia

MARCO MARTORANA – ROBERTA SAVELLA

Risale allo scorso 25 ottobre il report del Congresso dei Poteri Locali e Regionali del Consiglio d’Europa sull’hate speech, che segue le Linee Guida adottate dal Comitato dei Ministri il 20 maggio ed evidenzia gli impatti che i discorsi d’odio possono avere sul lavoro dei funzionari delle amministrazioni locali e, quindi, sul corretto funzionamento delle istituzioni democratiche della nostra società.

La questione degli effetti negativi dell’hate speech sulla libertà delle vittime di questo fenomeno era stata affrontata anche nel Documento conclusivo sull’indagine conoscitiva sulla natura, cause e sviluppi recenti del fenomeno dei discorsi d’odio, approvato dalla Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza (“Commissione Segre”) nel giugno 2022. Si tratta di un tema che va oltre le tradizionali obiezioni relative al complesso rapporto tra hate speech e libertà di espressione, con un ribaltamento di prospettiva: si inquadra la tutela contro i discorsi d’odio come uno strumento per garantire la libertà anche per i soggetti appartenenti alle categorie target dell’hate speech, invece che come una lesione alla possibilità di esprimere il proprio pensiero. Il cuore del ragionamento è che i discorsi d’odio finiscono per silenziarne le vittime, dunque reprimere questi comportamenti è necessario per consentire anche a loro l’esercizio dei propri diritti fondamentali. Nel proteggere i soggetti più esposti nei confronti degli odiatori seriali, quindi, si tutela la libertà dell’intera società.

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L’Italia dell’intolleranza ideologica, di genere, etnica, religiosa

CHIARA BALDI

Un odio «intersezionale» che si rinfocola quando la vittima è un soggetto che rappresenta più categorie già destinatarie di «hate speech», discorso d’odio. Come nel caso della senatrice a vita Liliana Segre, che da mesi riceve insulti per il solo fatto di essere «donna, ebrea e politica: è diventata un bersaglio, una sorta di catalizzatrice dell’odio», spiega Silvia Brena, giornalista e cofondatrice di Vox – Osservatorio Italiano sui Diritti, che per il sesto anno consecutivo ha realizzato, grazie alla collaborazione con quattro atenei (Statale di Milano, l’Università di Bari Aldo Moro, La Sapienza di Roma e «IT’STIME» della Cattolica di Milano), la «Mappa dell’Intolleranza».

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