Hate speech (incitamento all’odio), libertà di espressione e democrazia

MARCO MARTORANA – ROBERTA SAVELLA

Risale allo scorso 25 ottobre il report del Congresso dei Poteri Locali e Regionali del Consiglio d’Europa sull’hate speech, che segue le Linee Guida adottate dal Comitato dei Ministri il 20 maggio ed evidenzia gli impatti che i discorsi d’odio possono avere sul lavoro dei funzionari delle amministrazioni locali e, quindi, sul corretto funzionamento delle istituzioni democratiche della nostra società.

La questione degli effetti negativi dell’hate speech sulla libertà delle vittime di questo fenomeno era stata affrontata anche nel Documento conclusivo sull’indagine conoscitiva sulla natura, cause e sviluppi recenti del fenomeno dei discorsi d’odio, approvato dalla Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza (“Commissione Segre”) nel giugno 2022. Si tratta di un tema che va oltre le tradizionali obiezioni relative al complesso rapporto tra hate speech e libertà di espressione, con un ribaltamento di prospettiva: si inquadra la tutela contro i discorsi d’odio come uno strumento per garantire la libertà anche per i soggetti appartenenti alle categorie target dell’hate speech, invece che come una lesione alla possibilità di esprimere il proprio pensiero. Il cuore del ragionamento è che i discorsi d’odio finiscono per silenziarne le vittime, dunque reprimere questi comportamenti è necessario per consentire anche a loro l’esercizio dei propri diritti fondamentali. Nel proteggere i soggetti più esposti nei confronti degli odiatori seriali, quindi, si tutela la libertà dell’intera società.

1. Hate speech: problemi di definizione

Ma cosa si intende con “hate speech”? Il Documento della Commissione Segre sopra citato evidenzia i problemi legati alla definizione di questo fenomeno, che risente della diversa sensibilità che i vari ordinamenti giuridici dimostrano nei confronti delle tematiche connesse ai discorsi d’odio, in primis per quanto riguarda il rapporto, appunto ancora controverso, tra tutela della dignità e tutela della libertà di espressione. Per evitare equivoci sulla possibile sovrapposizione tra lecita manifestazione del pensiero e discorsi d’odio, nel Documento viene riportata la definizione contenuta nella Raccomandazione di politica generale n. 15 della Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza: “hate speech” è “l’istigazione, la promozione o l’incitamento alla denigrazione, all’odio o alla diffamazione nei confronti di una persona o di un gruppo di persone, o il fatto di sottoporre a soprusi, molestie, insulti, stereotipi negativi, stigmatizzazione o minacce tale persona o gruppo, e comprende la giustificazione di queste varie forme di espressione, fondata su una serie di motivi quali la ‘razza’, il colore, la lingua, la religione o le convinzioni, la nazionalità o l’origine nazionale o etnica, nonché l’ascendenza, l’età, la disabilità, il sesso, l’identità di genere, l’orientamento sessuale e ogni altra caratteristica o situazione personale”.

Nelle Linee Guida del 20 maggio scorso, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa chiarisce che per “hate speech” devono intendersi “tutti i tipi di espressioni che incitano, promuovono, diffondono o giustificano la violenza, odio o discriminazione contro una persona o un gruppo di persone, o che le denigrano, a causa di loro caratteristiche personali reali o attribuite o di status come la “razza”, il colore della pelle, la lingua, la religione, la nazionalità o l’origine etnica, l’età, la disabilità, il sesso, l’identità di genere e l’orientamento sessuale” (traduzione nostra).

È fondamentale ancorare la definizione di hate speech, quindi, non al movente in sé del discorso, ma agli effetti che questo può avere, ai rischi che causa per le vittime: mentre il dato psicologico, il sentimento d’odio, rimane insindacabile nella sfera intima e inviolabile dell’individuo, è necessario reprimere comportamenti che abbiano come obiettivo ed effetto probabile quello di incitare, promuovere, diffondere o giustificare (e, in tal modo, incentivare) violenza, odio e discriminazione.

2. Il bilanciamento con la libertà di espressione

A livello europeo la libertà di espressione è un diritto fondamentale soggetto a bilanciamento con gli altri di pari rango, come la tutela della dignità della persona e il principio di non discriminazione. L’art. 10 par. 2 della CEDU sancisce che la libertà di parola può essere sottoposta a restrizioni necessarie per salvaguardare la reputazione e i diritti altrui. Le misure contro l’hate speech sono, quindi, pienamente legittime purché proporzionate allo scopo: devono, in altri termini, fondarsi su un giusto bilanciamento tra libertà di espressione e gli altri diritti fondamentali violati dal discorso d’odio. Anche la Corte di Cassazione si è pronunciata in questo senso nella sentenza n. 36906/2015, affermando che “nel possibile contrasto fra la libertà di manifestazione del pensiero e la pari dignità dei cittadini, va data preminenza a quest’ultima solo in presenza di condotte che disvelino una concreta pericolosità per il bene giuridico tutelato”.

Tuttavia, appare convincente la tesi, che abbiamo evidenziato in apertura di questo contributo, che inquadra l’hate speech proprio come una violazione della libertà di espressione delle vittime, e che articola così l’intera discussione su questo diritto fondamentale. Il Documento della Commissione Segre cita il Professor Jeremy Waldron della New York University School of Law, che nel suo libro “The Harm in Hate Speech” afferma che “quando noi difendiamo i discorsi d’odio perché vogliamo tutelare il freespech, cioè la libertà di espressione, in realtà stiamo scegliendo la libertà di espressione degli aggressori rispetto alla dignità di espressione delle vittime”. La Commissione, inoltre, correla questo fenomeno con il problema dell’altissimo livello di under-reporting: la limitazione alla libertà di espressione delle vittime finisce per impedire loro di denunciare.

Questo discorso fornisce una interessante chiave di lettura per il recente Report del Consiglio d’Europa, che descrive gli effetti negativi dell’hate speech sul funzionamento delle istituzioni. I politici sono sempre più di frequente vittima di discorsi d’odio e abusi verbali e, per questo motivo, si trovano a lavorare in ambienti tossici e intimidatori, cosa che impatta in modo disastroso sul tessuto democratico della società, con un “effetto paralizzante”. Questo fenomeno viene esacerbato nei contesti locali, in quanto i politici vivono la propria quotidianità nelle aree di cui sono rappresentanti eletti, ed è tanto più grave quando avviene nei confronti di soggetti appartenenti a categorie target (ad esempio minoranze etniche o religiose, persone LGBT+, ecc…) spesso sottorappresentate nelle istituzioni e che, anche a causa dell’hate speech, possono essere disincentivate alla partecipazione politica.

Per questi motivi, il Congresso dei Poteri Locali e Regionali del Consiglio d’Europa, autore del report suddetto, chiede alle autorità locali e regionali degli Stati membri del Consiglio d’Europa alcune azioni, tra le quali evidenziamo:

  • Formare i politici eletti nelle istituzioni locali e regionali su come identificare, affrontare e prevenire hate speech e fake news, assicurandosi allo stesso tempo che abbiano gli strumenti necessari a tutelare la propria salute mentale (ad esempio fornendo loro un numero di emergenza attivo 24 ore su 24 per ottenere assistenza);
  • Promuovere l’adozione di Linee Guida per i politici e i media al fine di prevenire disinformazione e hate speech e favorire la trasparenza e l’open government;
  • Diffondere consapevolezza sul tema dell’hate speech e delle fake news, anche condividendo best practices adottate a livello nazionale o internazionale;
  • Supportare la cooperazione tra i politici e le comunità che rappresentano, anche attraverso meccanismi di partecipazione pubblica e coinvolgimento di gruppi e associazioni locali.

3. La normativa di contrasto all’hate speech

Per quanto riguarda le soluzioni normative per il contrasto all’hate speech, è ormai assodato che la risposta di tipo penale al problema deve essere usata come extrema ratio, mentre il grosso della tutela passa dall’educazione e dai rimedi di tipo civile e amministrativo. È quanto emerge dal Documento della Commissione Segre e dalle Linee Guida del Consiglio d’Europa dello scorso maggio, che sottolineano la necessità di distinguere i casi in cui il discorso d’odio è grave al punto da richiedere una tutela penalistica, quelli in cui è sufficiente il rimedio civile o amministrativo e, infine, quelli in cui le espressioni usate non sono sufficientemente gravi da poter essere limitate a livello giuridico ma richiedono comunque una risposta di tipo educativo, di dialogo interculturale e diffusione di consapevolezza del problema.

Il Comitato dei Ministri nelle Linee Guida utilizza i criteri di bilanciamento con la libertà di espressione che si sono affermati nella giurisprudenza europea, chiedendo altresì agli Stati membri di definire chiaramente nella loro legislazione nazionale quali espressioni di hate speech possono essere soggette a tutela penale (ad esempio minacce o insulti di matrice omofoba o razzista, ma anche negazione pubblica o giustificazione di genocidi e crimini di guerra) e di assicurare, comunque, rimedi effettivi di tipo civile e amministrativo.

Nelle Linee Guida troviamo inoltre un invito esplicito agli Stati a imporre per via legislativa gli intermediari online (come, ad esempio, i siti di social network) di adottare delle misure effettive per impedire la diffusione di hate speech. Il ruolo delle piattaforme nel contrasto alla diffusione dell’hate speech diventa sempre più centrale e il Comitato dei Ministri le inserisce nei “key actors” destinatari delle sue raccomandazioni, insieme alle istituzioni politiche e ai media.

È importante notare qui come nel nuovo Regolamento europeo sui servizi digitali (Digital Services Act o “DSA”) siano stati introdotti nuovi obblighi per le piattaforme che forniscono servizi digitali, tra cui quello di dare informazioni esplicite sulla moderazione dei contenuti e, per gli intermediari di maggiori dimensioni, l’adozione di codici di condotta e di meccanismi di prevenzione di rischi sistemici per i diritti e le libertà fondamentali degli individui. Il problema della mancanza di trasparenza sui sistemi di moderazione delle piattaforme online è stato evidenziato anche nel Documento della Commissione Segre, dove viene sottolineata l’importanza di regolamentare l’uso di algoritmi in questo contesto.

4. Conclusioni

Il contrasto all’hate speech, come abbiamo visto, solleva alcune questioni per quanto riguarda la compressione della libertà di espressione. Queste possono tuttavia essere inquadrate utilizzando una prospettiva diversa che ponga al centro la tutela della libertà delle vittime lesa anch’essa, oltre alla dignità, dal comportamento degli aggressori.

Adottare questo punto di osservazione del problema ci consente di considerare anche le ricadute che i discorsi d’odio hanno sul comportamento dei destinatari, specialmente quando questi sono rappresentanti politici; in questi casi il clima tossico creato dagli odiatori seriali finisce per influire sul corretto funzionamento delle istituzioni democratiche, paralizzandone l’attività.

Se è chiaro che il diritto penale deve essere utilizzato con parsimonia per reprimere questi comportamenti, c’è ancora molto da fare per potenziare l’educazione, la sensibilizzazione su questi temi, oltre che i rimedi di tipo civile o amministrativo utili a disincentivare i discorsi d’odio. I documenti adottati dal Consiglio d’Europa negli ultimi mesi chiamano tutti i “key actors” all’azione per modellare una società più sicura anche per le categorie target dell’hate speech.

in http://www.altalex.com del 08 novembre 2022

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