Sguardo. Occhi che diventano nutrimento

NUNZIO GALANTINO

La parola sguardo, per il suo significato e per quanto la differenzia, per esempio, dal semplice vedere, ha attraversato l’intero arco del pensiero. Da quello filosofico a quello artistico e letterario. Probabilmente perché, come scrive J.-L. Nancy, «guardare significa anzitutto badare [garder], warden o warten, sorvegliare, custodire [prendre en garde] e fare attenzione [prendre garde]. Avere cura e preoccuparsi. Guardando veglio e (mi) sorveglio: sono in rapporto con il mondo, non con l’oggetto…; nello sguardo sono messo in gioco. Non posso guardare senza che ciò mi riguardi [ça me regarde]» (Il ritratto e il suo sguardo).

E, prima ancora, perché, come afferma Aristotele, «si gode a guardare le immagini, perché contemplandole si impara e si ragiona su ogni punto» (Poetica, 1448b, 5-17). Lo sguardo quindi che, mentre mi apre al mondo, mi coinvolge e mi interpella. Fino a farmi stabilire con l’oggetto dello sguardo una relazione, che passa – come conferma il significato del germanico wardōn, etimo della parola sguardo – dall’osservare con gli occhi al vigilare, all’aver cura e custodire.

Ma lo sguardo non è solo apertura sul mondo. È anche atto di autoaffermazione. In quanto tale, avvertono Pirandello e Sartre, con lo sguardo si può esercitare un’implicita violenza: gli occhi tentano, esplorano, mirano all’anima e possono ingannare. Come accade quando si degrada l’altro a personaggio, quando lo si rappresenta in maniera infedele o lo si riduce a oggetto. Qui lo sguardo diventa invadenza che mette a disagio, facendo sentire violata la propria intimità.

È la scia sulla quale purtroppo si collocano i sistemi culturali che, connotando di significati solo negativi l’atto del guardare, alimentano rigidi tabù e coltivano un manicheismo che mortifica la sana cultura dell’incontro. Quella che vede nello sguardo l’atto gratuito che nutre la bellezza delle cose che esistono e sostiene la fragilità di quelle imperfette perché continuino a esistere.

Questo sguardo assume una valenza quasi religiosa. È lo sguardo amorevole e intimo, capace di caricare di senso nuovo tutto ciò che alla semplice vista sembra avere poco o nessun valore. E che, nello stesso tempo, può trasformare tutto ciò che guarda in nutrimento per la propria crescita. Fino a poter dire con Ferdinando Pessoa: «Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo». E, se dentro siamo tenebra o confusione, difficilmente il nostro sarà uno sguardo capace di cogliere i colori e le loro mille sfumature; difficilmente saremo in grado di valorizzare la ricchezza che portano con sé le differenze, senza che queste diventino divergenze.

in “Il Sole 24 Ore” del 28 aprile 2024

Contrassegnato da tag