Fine vita. Aiutare i malati a fare la scelta giusta

MASSIMO CACCIARI

La volontà del paziente è sacra, ma lo Stato deve offrire strumenti che diano garanzie. Nascere e morire sono fenomeni sociali: un paradigma puramente individualistico non regge.

Quando si affrontano questioni come vita e morte è necessario anzitutto essere ben consapevoli della radicale inadeguatezza di qualsiasi norma le riguardi. La politica che attraverso il suo diritto intendesse perfettamente regolarle in base ai propri fini sarebbe il paradigma di un moderno totalitarismo. Vita e morte sono radicate nel senso angoscioso della mia singolarità. Nessuno può vivere al mio posto e nessuno morire. Ciò significa che io ne sia l’assoluto padrone? Dispongo forse della mia vita come mi piace? Della propria energia miliardi di uomini in passato e oggi sono stati liberi soltanto di poterla vendere. Il mio essere è sempre in relazione – anche quello del monaco lo è, magari solo col suo Dio. E la morte? Non si muore forse anche per gli altri? Anche la mia morte è in relazione con loro, come lo è stata la mia vita. Posso ignorarlo e affermare semplicemente che il morire appartiene a me soltanto e io soltanto sono chiamato a deciderlo? Ciò vale anche per il suicida, anche a lui verrà il pensiero: come la mia morte è destinata a pesare sugli altri? Vi è una responsabilità anche nel morire. Un paradigma puramente individualistico non regge – e tuttavia con quale ragionamento sostituirlo, proprio oggi, quando esso domina incontrastato almeno in Occidente?

Per capire il problema liberiamo il terreno da alcune domande preliminari, non parliamo di accanimenti terapeutici né dell’insensato prolungamento di condizioni di sofferenza, equivalente a una pratica di tortura. In questi casi la norma dovrebbe semplicemente stabilire che l’assistenza a una «buona morte», laddove richiesta dal paziente, è obbligatoria. Prendiamo invece il caso di una persona per la quale la scienza medica indichi ancora qualche possibilità di cura o non pronunci un definitivo «non possumus», ma che non tolleri più la propria condizione. Come si deciderà del suo diritto a ricorrere a una morte assistita? E più ancora (poiché i problemi si comprendono soltanto se stressati ai loro limiti logici): come tratterà la norma una persona semplicemente stanca di vivere, ma non abbastanza forte e coraggiosa da darsi la morte? Una persona malata del male di vivere verrà semplicemente rimandata allo psicologo? O affidata alle strapagate «cure» di cliniche d’oltralpe? Medicina di classe già funzionante anche per questo settore.

Sembra che qualsiasi norma dovrà fondarsi sull’accertamento dell’assoluta gravità della malattia. Ma come è possibile «normare» l’idea di malattia? Non dipende forse la sua gravità anche, e a volte soprattutto, dal carattere del malato? E tuttavia, qualsiasi norma, per sua natura, standardizza, tipicizza. Potrebbe mai considerare la gravità della malattia dal punto di vista del singolo malato (escludendo per principio, vale la pena ripeterlo, quel profondo e misterioso male che porta al suicidio)? Eppure, in qualche misura, lo deve. Proprio se riconosce la propria impotenza a definire che cosa sia «malattia», la norma dovrà considerare fondamentale il punto di vista del soggetto paziente. Fondamentale, ma non esclusivo, a meno che non si stabilisca che chiunque e comunque possa ricorrere quando lo richieda alle procedure della morte assistita, come a qualsiasi altra terapia – e questa pare la tendenza che si va ovunque rafforzando, naturalmente con gli effetti discriminatori e di classe cui si è accennato.

Che fare? L’espressa e motivata volontà del soggetto sta a fondamento della decisione. Qualsiasi altro principio spalanca le porte a pratiche eugenetiche. Questa volontà può essere dichiarata preventivamente? È necessario, io penso – ma altrettanto una sua conferma, così come un preliminare esame medico che accerti semplicemente la capacità di intendere e volere e escluda ogni possibilità di plagio. A questo punto, poiché il soggetto si rivolge a una funzione pubblica per ottenerne un servizio, subentra la terzietà del giudizio, che è essenza del diritto. È un giudice che prende in mano il caso e nomina un medico come proprio consulente per valutarne la situazione clinica complessiva. Il richiedente a sua volta potrà nominare un proprio esperto, che lavorerà in contraddittorio con quello del Tribunale. Se il parere sarà conforme, il Giudice dovrà attenervisi nella sua sentenza, altrimenti sarà lui a decidere secondo coscienza. L’alternativa logica è del tutto chiara, aut-aut: o si ritiene la volontà del soggetto in sé sufficiente, oppure l’ultima parola, di fronte a posizioni contrastanti sul piano medico, deve essere quella di un Terzo. Per minorenni penso sia possibile procedere soltanto se il caso riguarda la fattispecie considerata all’inizio, quella per cui anche il medico considera il prolungarsi delle cure null’altro che una disumana tortura.

Rimane intatto il problema, di fronte a cui non solo il diritto, ma la stessa scienza non possono che chinare il capo e dismettere ogni presunzione: chi può decidere la profondità del male che mi affligge? Chi può sostituirsi alla mia volontà di morire? E tuttavia vita e morte sono anche fenomeni sociali; o il diritto si mostra in grado di affrontarli con norme che abbiano una forma e possano durare, oppure essi resteranno in mano a potenze extra-giuridiche: abitudini, consuetudini, tradizioni etiche o religiose. Erano le istituzioni che presiedevano a queste potenze a svolgere in passato una funzione bio-politica. La politica si trova oggi chiamata, piaccia o no, a sostituirle. Ma guai se pensasse di assumere funzioni altrettanto pervasive, guai se operasse come fosse in grado di sapere che cosa è malattia e indicasse tassativamente come deve essere curata. Le sue norme debbono limitarsi a garantire che l’esercizio della libertà individuale avvenga in forme tali da poter essere consentito a tutti. Come è il soggetto che deve poter decidere se sottoporsi o meno a una qualsiasi terapia, così rimane lui, la sua volontà il fondamento di ogni assistenza a morire.

in “La Stampa” del 18 febbraio 2024

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