Pena di morte. Addio al giurista Robert Badinter che l’abolì in Francia

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

Il ricordo di Robert Badinter, il giurista politico, attivo nel realizzare i valori che aveva sviluppato da intellettuale appassionato, si raccoglie naturalmente attorno al momento cruciale: quello in cui egli riuscì a convincere prima il socialista presidente Mitterand nel cui governo era ministro della Giustizia e poi, nel 1981, la maggioranza della Assemblea nazionale, sulla necessità di eliminare infine la pena di morte dall’ordinamento francese. Ma il ministro Badinter va pure ricordato per la sua azione di riforma e umanizzazione delle carceri francesi, per la modernizzazione delle leggi penali, per il riconoscimento, da parte della Francia, del diritto individuale al ricorso alla Corte europea dei diritti umani.

Non fu facile l’opera di convincimento svolta da Badinter perché la pena di morte fosse abolita. Anche allora la ricerca del consenso dell’opinione pubblica prevaleva sui convincimenti politici: a stare ai sondaggi, i conservazionisti parevano prevalere. Si trattava della Francia, che aveva dato la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) e tuttavia ancora manteneva la pena di morte.

Pochi anni prima la ghigliottina aveva ucciso l’ultimo condannato, di cui l’avvocato Badinter non aveva potuto salvare la vita. Fu come l’esecuzione di Jean Calas, che spinse Voltaire a scrivere il suo Traité sur la tolérance (1763), espressione di un modo di pensare che stava emergendo e nel quale si colloca, l’anno dopo, la pubblicazione di Dei delitti e delle pene, che porta il nome dell’italiano Cesare Beccaria. Fu quest’ultimo – allora ventiseienne – a scuotere, per la semplicità e forza dell’argomentare, il mondo intellettuale e politico europeo, rendendo inevitabile il dibattito sulla abolizione della pena di morte.

Dibattito, non facile accoglienza, anche nei circoli illuministici cui Beccaria apparteneva. Infatti si manifestarono preoccupazioni e resistenze e virulente furono le azioni contrarie, sul piano politico e persino morale. Nel 1766 il libro fu messo all’Indice dei libri proibiti, per la distinzione che operava tra Delitto e Peccato. All’epoca la sensibilità rispetto alle pene crudeli non era ancora quella che, almeno in Europa, siamo soliti credere sia diffusa. Discutendo il libro di Beccaria, infatti, per la preoccupazione di non rinunciare all’efficacia intimidatrice che, nell’impostazione utilitarista, si credeva sicura, Denis Diderot proponeva di sostituire la pena di morte con «una dura e crudele schiavitù»”.

E all’Assemblea costituente francese del 1789, per facilitarne l’approvazione, la proposta di abolire la pena di morte venne accompagnata dalla previsione dell’atrocità della pena sostitutiva: pena detentiva da dodici a ventiquattro anni, così descritta: «Il condannato sarà detenuto in una segreta oscura, in completa solitudine. Corpo e membra porteranno i ferri. Del pane dell’acqua e della paglia gli forniranno lo stretto necessario per nutrimento e doloroso riposo». Una volta al mese la porta della cella sarà aperta «per offrire al popolo una lezione importante. Il popolo potrà vedere il condannato carico dei ferri al fondo della sua cella, e leggerà sopra la porta il nome del condannato, il delitto e la sentenza».

Era così evidente che il corpo e la vita del condannato venivano usati, come mezzo per intimidire tutti gli altri. Ma nemmeno la crudeltà di una tal pena sostitutiva bastò. Prevalse infatti a lungo la convinzione che la pena di morte, come le altre pene più crudeli, facesse paura e perciò distogliesse dai propositi criminosi. Come invece Beccaria riteneva, le ricerche effettuate hanno escluso che un simile effetto si verifichi con l’abolizione della pena di morte e delle pene crudeli.

Prima nel mondo, la Toscana abolì quella pena nel 1786. Il Granduca Pietro Leopoldo riteneva che la pena di morte fosse conveniente solo ai popoli barbari. Le pene dovevano esser definite esclusivamente in vista della «correzione del reo, figlio anche esso della società e dello Stato, della di cui emenda non può mai disperarsi». Dopo l’Unità d’Italia si pose la necessità di uniformarne la legislazione, superando le particolarità dei diversi Stati preunitari. La Toscana rifiutò di adeguarsi adottando quella pena, prevista da tutti gli altri Stati. E nel 1889, con il codice penale che porta il nome del ministro Zanardelli, la pena di morte fu poi esclusa per tutto il Regno. Il fascismo la reintrodusse.

La Costituzione repubblicana l’ha definitivamente bandita dall’ordinamento giuridico italiano. Noi in Europa l’abbiamo eliminata, ma nel mondo più di settanta Stati ancora la mantengono e la praticano: persino gli Stati Uniti, per altro verso nell’origine vicini al contesto intellettuale che diede frutto con l’opera di Beccaria e con le riforme che ne seguirono. La lotta vittoriosa di Badinter va così ben oltre la sola dimensione nazionale francese e assume valore universale.

In tempi in cui si insiste spesso sull’orgoglio d’essere italiani, vale la pena ricordare che motivo sicuro di un simile sentimento consisterebbe proprio nel fatto che un italiano e l’Italia sono all’origine della lunga lotta di emancipazione dalla cultura di morte di cui la pena capitale e le pene crudeli sono espressione.

in “La Stampa” dell’11 febbraio 2024

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