Scuola. 50 anni di “Decreti delegati”, serve un nuovo patto genitori-docenti

ALESSANDRO ARTINI

I decreti delegati hanno 50 anni. Essi regolano profondamente la vita della scuola, ma il mondo è cambiato.

Con il 2024, sono trascorsi cinquant’anni dall’emanazione dei decreti delegati del 1974. Mezzo secolo in cui la scuola italiana ha vissuto alcune riforme, ad esempio quelle della Moratti, della Gelmini e di Renzi, per menzionare le più recenti, che, tuttavia, non hanno toccato il nocciolo hard della vita scolastica e cioè il suo sistema di “governance” (collegio dei docenti, consiglio di circolo o d’istituto, consigli di classe o interclasse, ecc.).

Forse adesso è il momento di porre il focus della nostra attenzione su quei decreti, che hanno regolato e regolano tutt’oggi la vita delle istituzioni scolastiche e che rappresentano una sorta di deep school, in cui si radicano i poteri forti della scuola, purtroppo refrattari a qualsiasi cambiamento.

In questa prospettiva, occorre sviluppare un pensiero strategico di riforma della scuola, rispetto al quale molte innovazioni, da quelle relative alle procedure dell’esame di Stato (con le quali qualche ministro pensava di eternizzare il proprio nome) a quelle riguardanti le 30 ore di educazione alla relazionalità, rappresentano tentativi minori se non succedanei del cambiamento. Eppure, in considerazione del decremento demografico e dei nuovi equilibri mondiali che si vanno affermando, purtroppo, tramite dinamiche belliche sanguinarie, il destino della scuola si congiunge indissolubilmente con quello del nostro Paese, definendone le future condizioni, se di prosperità e libertà oppure no.

Sfugge alla maggior parte degli osservatori la drammaticità di questo momento, dove la leadership politica dovrebbe avere capacità di scrutare il futuro oltre le reiterate scadenze elettorali e immaginare un destino ideale da perseguire. La scuola è centrale nel futuro di ciascun Paese, come sembrano aver ben compreso alcune nazioni asiatiche, che si predispongono a creare sfere di egemonia geopolitica e i cui giovani primeggiano nelle graduatorie di PISA-OCSE. È mai possibile che in Italia ci si perda a discutere delle tre consulenti del ministro Valditara (Concia, Zerman e sr. Monia Alfieri), anziché affrontare i problemi che bucano il tessuto della vita civile?

Tornando ai decreti delegati, essi nacquero con la finalità di modificare profondamente la scuola, che era fortemente improntata di idealismo gentiliano (lo è tutt’oggi) e non del tutto estranea alla mentalità gerarchica e autoritaria del Ventennio, tutt’altro che residuale. Essi promanavano dalla legge delega del 30 luglio 1973 n. 477, che autorizzava il governo a svolgere una funzione legislativa in alcune materie attinenti all’istruzione. Furono emanati così cinque decreti presidenziali (DPR), che hanno ad oggetto rispettivamente il riordino degli organi collegiali (n. 416), lo stato giuridico del personale della scuola (n. 417), i compensi per il lavoro straordinario del personale ispettivo e direttivo (n. 418), le sperimentazioni e l’aggiornamento dei docenti (n. 419) e infine lo stato giuridico del personale non insegnante (n. 420). L’universo dei temi trattati, dunque, era decisamente ampio e in gran parte è stato novellato dalla normativa successiva, ma la questione degli organi collegiali, tutt’oggi vigenti e sostanzialmente confermati dal Testo Unico sulla scuola, ovvero dal DLgs. 297/1994, è rimasta inalterata.

L’idea di partecipazione che ispirava tutto l’impianto giuridico ha tutt’oggi un valore indefettibile, perché, se essa venisse dismessa, l’istituzione scolastica sarebbe del tutto autocentrata e autoreferenziale e, anche qualora attendesse ai compiti previsti dallo Stato, non risponderebbe alle legittime attese di una società democratica ed evoluta. Tuttavia, a mezzo secolo di distanza, è necessario verificare l’attualità e l’efficacia di quelle norme che continuano a regolare la vita delle istituzioni scolastiche, senza soluzione di continuità.

Lo spirito di partecipazione che quei decreti volevano promuovere e che preconizzava una gestione sociale della scuola è progressivamente venuto meno ed è sempre più difficile reperire la disponibilità di genitori e docenti per ricoprire i ruoli previsti negli organi collegiali. In alcune scuole, dove l’utenza scolastica è socialmente più elevata, la partecipazione, seppur limitata, mantiene tutt’oggi una qualche vitalità, ma nelle altre, quelle generalmente di periferia, che più risentono dei disagi e che riflettono una bassa portata di capitale culturale del territorio, essa è decisamente flebile.

All’interno degli organi collegiali, inoltre, predomina la componente lavorativa interna all’istituzione e, se ciò appare del tutto legittimo sui temi didattici, che devono essere materia di competenza dei soli docenti, lo è molto meno per ciò che attiene le questioni organizzative e amministrative. In più, un organo come il collegio vive in molte occasioni un conflitto perspicuo di interessi, quando ad esempio si trova a deliberare il piano delle attività annuali o la riduzione oraria dell’unità di lezione di sessanta minuti e delle conseguenti modalità di recupero. In questi casi, la logica pedagogica e quella degli interessi lavorativi dei docenti divergono e non sempre le scelte dei collegi si orientano alla dimensione educativa dei soggetti cui l’intero sistema è destinato, cioè agli alunni.

Fermo restando che la conflittualità tra genitori e docenti, rispetto alla quale i fatti di cronaca rappresentano l’epidermide visibile e “mediatizzabile”, si radica in contesti sociali profondi sui quali la scuola non ha possibilità di intervenire, l’equilibrio tra componenti scolastiche, che non consente poteri effettivi di gestione della scuola da parte dei genitori, è sicuramente un fattore di inasprimento relazionale.

L’idea che i genitori debbano essere allontanati o esclusi dalle vicende educative (“Fuori i genitori dalle scuole!” sembra essere lo slogan più azzeccato per una bolla segmentata di opinione pubblica interna alle scuole) non è altro che una boutade, che, se fosse realizzata (ed è impossibile), provocherebbe un’involuzione autopoietica della scuola. Quei decreti, dunque, necessitano di una revisione profonda del contesto educativo dei giovani, che può essere perseguita solo mediante nuove forme di alleanza educativa tra adulti. In altri termini, occorre stabilire un nuovo patto educativo tra docenti e genitori, al cui interno i giovani possano coltivare semi di fiducia nelle istituzioni scolastiche, ripristinandone il valore simbolico, spesso del tutto smarrito.


In Il Sussidiario, 29 gennaio 2024

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