Il Medioevo sconosciuto. Monache miniaturiste, poetesse, filosofe, scienziate, pittrici, traduttrici

«Pregate per l’amanuense che scrisse questo libro. Il suo nome è Elisabeth». Così si legge nel colophon di un graduale cistercense sopravvissuto alle nebbie del Medioevo germanico. Suor Elisabeth, vissuta in un monastero della Baviera verso il 1260, non rappresenta certo un unicum. Ermenegarda di Lamspringe, Eufemia di Firenze, Agnese di Quedlinburg e un’altra Agnese, vissuta presso il convento padovano di San Pietro, sono solo alcune delle tante monache che tra il XIII e il XV secolo svolsero il lavoro di scriba, di traduttore, di copista e forse anche di miniaturista presso lo scriptorium di qualche rinomato monastero europeo. Alludo a donne non solo alfabetizzate ma squisitamente dotte, educate al canto, alla grammatica, all’erboristeria e alla farmacopea. Donne sapienti quanto la carolingia Dhuoda, autrice del primo trattato di pedagogia della storia, o quell’Agnès Morel che, in pieno Trecento, ricoprì il ruolo di bibliotecaria (librorum custoda ) e di educatrice di fanciulle presso l’abbazia delle Dame di Saintes.

Simili esempi avrebbero dovuto bastare a dissolvere il clima di misoginia diffuso nell’Evo di Mezzo. Eppure, ancora nel Quattrocento, il frate domenicano Antonino da Firenze non esita a dichiarare che le donne «possiedono una forza d’animo limitata e una capacità di apprendere inferiore rispetto a quella degli uomini», facendo eco alle opinioni di non pochi teologi e persino del medico siriano Qusta ibn Luqa (IX-X secolo), secondo il quale le facoltà intellettive delle esponenti del gentil sesso sarebbero pari a quelle dei bambini e degli idioti.

Quasi dimenticate nelle rappresentazioni del diluvio universale e relegate ai margini del celebre arazzo di Bayeux, seminude e inermi nelle stragi degli innocenti, le donne corrono costantemente il rischio di diventare pedine o addirittura prede delle politiche matrimoniali. Regine o serve della gleba, cambia ben poco! Obbligate non di rado a sposarsi giovanissime, passano dall’autorità paterna a quella dei mariti, gravate dell’unico, avvilente dovere di essere docili e prolifiche.

Ed ecco, invece, che la scelta – spesso sofferta, temuta o addirittura imposta dalle famiglie – della vita monastica può rappresentare non solo una mera alternativa al diventare moglie, ma un’inaspettata via di salvezza, conducendo centinaia di giovani a un’isola felice in cui poter accedere all’istruzione e sviluppare inclinazioni e personalità proprie, lontane dal frequente pericolo di morire di parto.

Vorrei pertanto che, per un attimo, queste parole si trasformassero in uno spioncino attraverso il quale poter osservare le difficili vite di queste comunità di religiose. Vite consacrate all’obbedienza e use a scorrere, proprio come quelle dei monaci, al ritmo del suono delle campane. Tra il silenzio, la mortificazione della carne e il canto sacro. Tra le colonne dei chiostri, gli esercizi del canto e il profumo delle erbe aromatiche. Vite appartate, piene di fremiti interiori, spartite con poche consorelle, a volte confidenti, a volte rivali, in una quiete che forse inquieta non solo chi oggi, sorridendo, le interpreta alla stregua di una triste rinunzia, ma anche le antiche ribelli come Marianna di Leyva, la monaca di Monza, assurta ad antitesi simbolica di quell’isolamento spirituale che, invece, fu in grado di dare tanti mirifici frutti.

Dalle non poche amarezze del claustro, e dagli innumerevoli sacrifici che le sue regole imposero alle donne di ogni tempo, emergono infatti la benedettina Rosvita (X secolo), poetessa, agiografa, cronista e conoscitrice delle opere di Virgilio, Stazio, Ovidio e Terenzio, l’alsaziana Herrad, badessa di Hohenbourg (XII secolo) e autrice dell’enciclopedicoHortus deliciarum , per non parlare di Ildegarda di Bingen, una delle menti più prolifiche e geniali di tutto il Medioevo. Intellettuali che non hanno nulla da invidiare a studiosi del calibro di Bernardo di Chiaravalle e di Alano di Lilla, eppure, ancora oggi, messe sovente in disparte, quasi fossero figure capitate per caso in una storia costruita esclusivamente dagli uomini.

Fanno sorridere, a tal riguardo, le ricorrenti allusioni sull’abilità delle monache nel ricamare e nel cucinare biscotti. Soprattutto sepensiamo alle migliorie idrauliche apportate a Napoli dalla badessa Mobilia, alla guida, tra il XII e il XIII secolo, del cenobio dei Santi Marcellino e Festo. Oppure alla badessa Hitda di Meschede, rappresentata nella superba miniatura di un evangelario compilato intorno all’anno Mille, nell’atto di donare a santa Walburga un manoscritto da lei medesima commissionato.

Allo stesso modo, compaiono in opere coeve Uta di Niedermünster e Cristina di Markyate. Donne circondate dall’oro, dai rossi e dall’azzurro lapislazzuli dei codici miniati. Donne trasfigurate in icone, anzi in simboli, a imperitura memoria delle vette che furono in grado di raggiungere nei silenti ambulacri dei loro monasteri, divise tra l’estasi mistica e l’orgoglio di aver vissuto libere dalle regole di un mondo all’apparenza fatto solo per gli uomini.

Continuino, pertanto, i predicatori del Medioevo (e non solo) a pontificare Femina dulce malum, calpestando la figure di Eva e della Maddalena, eterne peccatrici. E ridano malignamente gli autori degli exempla , delle chansons e dei fabliaux , nel diffondere le storie sull’infedeltà di Ginevra, di Francesca da Rimini e della lupa Hersent. Voci assai più melodiche delle loro – voci femminili – risponderanno all’insulto riempiendo le volte delle scholae cantorum per l’arco di mille anni. Nascondendo, dietro la loro grazia virginale, rimpianti, ambizioni e amori vissuti e morti nel silenzio. Se non addirittura intrighi capaci di suscitare tanto scalpore o curiosità da indurre qualche audace consorella a svolgere un’indagine in stile Guglielmo da Baskerville, spingendola ad andare in cerca di indizi fra le ombre piene di bisbiglii che si addensano, nei conventi, tra i vespri e i rintocchi del mattutino.

in “la Repubblica” del 28 gennaio 2024

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