La Cop28 di Dubai non cura le cause della crisi. Un fallimento annunciato

MARIO TOZZI

Il fallimento annunciato della Conferenza delle parti sul clima (COP28) di Dubai sta tutto nei suoi fragili e ambigui presupposti, che si concretizzano nel procrastinare sine die qualsivoglia azione strutturale per agire sulle cause della crisi climatica. Del resto quando non si chiama mai direttamente in causa la responsabilità gravissima e reiterata delle corporation gaspetrocarboniere, e degli Stati che con loro si identificano, e non le si mettono mai sul banco degli imputati chiamandole a un sostanziale risarcimento, non ci si può aspettare, al massimo, che qualche successo di facciata. Ma a Dubai, probabilmente, non registreremo neppure quello, non essendo possibile uscire incontaminati da un confronto con Lucifero in persona nella casa stessa del diavolo.

Tutte le major dei combustibili fossili sapevano benissimo a cosa si sarebbe andati incontro continuando a estrarli e bruciarli: studi commissionati a ricercatori dalle stesse compagnie, fino dagli anni ’70 del XX secolo, avevano messo impietosamente in luce come si sarebbe arrivati a 420 ppm (parti per milione) di anidride carbonica attorno al 2020, cosa che si è puntualmente verificata. La dimostrazione più lampante che la scienza è unanime sulle cause della crisi climatica, anche quando viene pagata dall’industria che auspicherebbe risultati più addomesticati.

Naturalmente ci auguriamo di venire smentiti, ma ciò avverrebbe solo se al termine dei lavori si prendessero provvedimenti strutturali, non più negoziabili, obbligatori e tempestivi. Cioè se si mettesse fine allo scandalo dei finanziamenti pubblici al settore oil & gas (calcolati a circa 7 trilioni di dollari/anno secondo FMI), senza andare tanto per il sottile se si stratta di forme dirette o indirette di sostegno; se si impedisse di continuare a trivellare allegramente perfino nei santuari di protezione della natura o ai poli; e se si imponesse un prezzo di riconversione che tenga conto del costo sociale del carbonio, in pratica se si destinasse una percentuale di quei profitti alle energie rinnovabili. E se a tutto questo si imponesse un controllo effettuato da un organismo super partes e se queste operazioni partissero immediatamente, perché di tempo ne abbiamo già perso abbastanza.

Invece noi non facciamo nulla di tutto ciò e vediamo serenamente fallire la previsione che ci ha finora tenuto appesi alla speranza di un cambio di rotta, cioè che avremmo contenuto le emissioni in modo da non vedere incrementare la temperatura media atmosferica più di 1,5°C nel prossimo futuro, come sbandierato più volte nel corso dei meeting economici internazionali (G20 e G7 compresi).

Invece, valutando gli investimenti e i programmi di sviluppo delle compagnie gaspetrocarboniere, quello che emerge è che l’incremento sarà di 2,7°C, un valore temuto da tutti gli specialisti perché foriero di conseguenze irreversibili non solo per gli ecosistemi, ma anche per la biologia dei viventi, sapiens compresi. Difendere le foreste residue, piantare miliardi di alberi, tutelare le balene (sì, contribuiscono pesantemente a stoccare la CO2 in eccesso), sono tutte operazioni positive, ma agiscono sugli effetti, non toccano le cause della crisi climatica, perciò rischiano di non essere commisurate a un cambiamento che si preannuncia molto più cospicuo del previsto.

Mitigare senza agire sulle cause nello stesso tempo serve a poco, riunirsi in conferenze in cui non pestare i piedi a un’economia distruttiva è più importante dello stato di salute della biosfera che ci sostiene serve ancora a meno. Ci risparmiassero la presa in giro, comunque mascherata.

in “La Stampa” del 1° dicembre 2023

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