Se vogliamo salvare la terra dobbiamo cambiare menù

CARLO PETRINI

La 28° conferenza sul clima delle Nazioni Unite (Cop28) che inizierà domani a Dubai prende il via in un’atmosfera poco confortante. L’assenza di Biden e di Xi Jinping è sintomo di un progressivo disinteresse? E il forfait all’ultimo di Papa Francesco per malattia depotenzierà il summit? Per il secondo anno di fila, proprio mentre la crisi climatica si manifesta in maniera dirompente e diffusa, la Cop si terrà in un Paese, gli Emirati Arabi, con uno spazio civico chiuso, dove il dissenso e la difesa dei diritti umani possono portare all’incarcerazione. Nei vertici multilaterali del genere la presenza della società civile che si mobilita per chiedere maggiori impegni è fondamentale. E lo è ancora di più quando è ormai certo che il 2023 sarà l’anno più caldo mai osservato: a novembre abbiamo superato per la prima volta i 2°C di aumento della temperatura media globale su base giornaliera.

Non esagera dunque Guterres, Segretario Generale dell’Onu, ad affermare che è finita l’era del riscaldamento globale ed è arrivata quella dell’ebollizione. I toni sono meno drammatici, ma la conclusione a cui giunge il sesto rapporto di valutazione del IPCC, il report scientifico più autorevole sui cambiamenti climatici, è la medesima: dobbiamo agire urgentemente. È ancora nelle nostre possibilità limitare l’aumento della temperatura a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, così come siglato da 195 Paesi nell’Accordo di Parigi del 2015. Cito questo accordo perché durante la Cop28 si analizzeranno i risultati di quell’incontro. Sappiamo già che i progressi fatti sono insufficienti. La governance globale presente al vertice saprà fornire soluzioni concrete e ambiziose che consentano all’umanità di rimettersi in carreggiata nella riduzione delle emissioni? Questo è il vero riscontro che attendiamo.

In mezzo allo sconforto c’è una nota positiva: dopo che la Cop27 ha ideato per la prima volta un padiglione al cibo, quest’anno la trasformazione dei sistemi alimentari è tra le priorità dell’agenda del vertice. Il 10 dicembre sarà dedicato ad alimentazione, agricoltura e acqua con numerosi eventi tematici e un incontro istituzionale di alto livello. Contestualmente gli Emirati Arabi stanno predisponendo una dichiarazione su agricoltura sostenibile, sistemi alimentari resilienti e azione climatica. D’altronde i sistemi alimentari nel loro complesso – produzione, trasformazione, trasporto e consumo – sono responsabili del 35% delle emissioni di gas serra.

Trascurarli o trattarli parzialmente è stata una grave mancanza. Dico questo anche perché i sistemi alimentari hanno la particolarità di essere una sorta di Giano Bifronte; contemporaneamente carnefici e vittime del mutare del clima. A causa del riscaldamento, del cambiamento nelle precipitazioni, dell’aumento in frequenza e intensità di eventi estremi, la crisi climatica sta infatti impattando negativamente sulla sicurezza alimentare e idrica di migliaia di comunità nel mondo (specialmente le più vulnerabili che storicamente hanno contribuito meno a causarla).

Le conseguenze sono legate a una minore disponibilità di cibo, a una inferiore qualità della dieta e un aumento di malattie legate alla nutrizione. La positività data dalla rilevanza che avrà il cibo deve però essere accompagnata da cautela e da un attento monitoraggio dei contenuti che entreranno o meno a far parte del dibattito. Cito quello più scomodo: non si può pensare di trasformare i sistemi alimentari senza affrontare le radici dell’attuale insostenibilità. È giunto il tempo di dismettere il modello agroindustriale che ha dominato negli ultimi cinquant’anni causando perdita di biodiversità, deforestazione, degrado e contaminazione di suolo e acqua.

Un sistema che in nome della produttività ha brevettato i semi e ha imposto agli agricoltori di piantarli su ampie distese di monoculture privandoli così della loro sovranità alimentare, che ha legittimato lo spreco alimentare come una variabile fisiologica al sistema, e che ha creato un binomio quasi indissolubile tra produzione di alimenti e consumo di fonti fossili; ormai utilizzate in tutte le fasi della filiera: dalla fabbricazione di fertilizzanti e pesticidi, passando per gli imballaggi plastici, il trasporto, senza tralasciare la produzione vera e propria del cibo. Si stima che i sistemi alimentari siano responsabili di almeno il 15% dei

combustibili fossili bruciati. In questo senso la transizione energetica verso fonti rinnovabili è condizione necessaria alla transizione dei sistemi alimentari. Il fatto che il presidente della Cop28, il Sultano Ahmed al Jaber, sia anche il capo dell’11° azienda per produzione globale di petrolio e gas, non fa ben presagire. Così come non lo fa l’assenza dal programma dell’agroecologia; pratica riconosciuta dalla FAO, dall’IPCC e da molteplici movimenti per il contributo positivo che la sua adozione ha sulla salute del pianeta e delle persone. Trovano invece ampio spazio innovazioni tecnologiche quali l’agricoltura climate smart, la carne sintetica, l’applicazione dell’intelligenza artificiale al settore agroalimentare etc., che non mettono in discussione il modello lineare, industriale ed estrattivista.

Senza cambio di paradigma, senza riconciliazione con la natura è però difficile immaginare come poter raffreddare l’ebollizione globale. Il tempo stringe ed è dovere dei presenti alla Cop28 usarlo sapientemente.

in “La Stampa” del 29 novembre 2023

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