Cinema. «Racconto un’umanità dimenticata. Le comunità? Sono più forti della crisi»

ANTONIO ALBANESE, intervistato da DIEGO MOTTA

Gli ultimi diventano i primi, nella logica di Antonio Albanese. Lo sono già diventati, anche se hanno perso. «I primi per me sono gli operai, anzi, tutto il mondo operaio che abbiamo messo da parte, abbiamo nascosto, quasi dimenticato». Non sono gli unici “numeri primi” che stanno a cuore all’attore e regista, che ieri a Vicenza ha presentato con grande successo di pubblico il suo “Cento domeniche”, liberamente ispirato al crac delle banche venete del 2015. Gli altri sono «i giovani da cui dobbiamo ripartire, puntando sulla costruzione di nuovi punti di riferimento», spiega Albanese.

Era a questa terra a cui pensava, quando ha iniziato a immaginare il film?

Sbaglia chi pensa che questo sia un film sul Nord Est. È un film sulle persone, su un’umanità tradita, quella del lavoro che abbiamo così tanto oscurato negli ultimi anni. Nessuno ne parla più. Ho incontrato tante persone in questi anni e grazie a loro ho rivissuto la mia storia di lavoratore. Gli operai sono davvero i primi da tutelare, perché sono quelli che hanno sostenuto questo Paese quando cresceva. Non possiamo dimenticare tutto questo o far finta di nulla. Per questo, ho voluto mettere anche parte della mia storia in questa produzione. Credo di essere stato il primo attore a lavorare in un film sullo stesso tornio su cui avevo lavorato nella vita reale, diversi anni prima…

L’Italia sta diventando sempre di più la patria del lavoro povero, sottopagato. Che fase attraversa, secondo lei, questo Paese?

Intanto, vedo che da Vicenza a Bari, passando per tante altre città, l’accoglienza del pubblico su questi temi è la stessa: riconoscenza, perché se ne sta parlando, e insieme voglia di condividere quel che è stato. Vedo un Paese un po’ depresso, se devo dire la verità, con un tessuto sociale che rischia di disgregarsi. Però la forza di queste comunità mi sembra più grande anche di tante ingiustizie subite, che il mondo della cultura può aiutare a denunciare.

Spera che il suo atto d’accusa verso la finanza porti a qualche risultato concreto?

Intanto, resto ammirato dall’impegno di chi si è speso per salvare letteralmente la vita di tante persone che rischiavano di essere sopraffatte dal senso di vergogna per le truffe subite. Mi pare si debba tornare, come dice la Chiesa, a una finanza che sia attenta all’uomo, che metta al centro la persona. Non bisogna demonizzare nulla, attenzione, ma è necessario tornare ai rapporti autentici tra le persone che c’erano una volta. Perdere la fiducia da parte di tanti clienti è stato un atto criminale nella vicenda che racconto. Davvero resto convinto che «finiremo tutti in fondo a un fondo», come dico nel film. Temo sia una prospettiva concreta, se le cose non cambiano. Per il resto, ho profonda nostalgia di quando l’industria era l’industria, di quando i diritti dei lavoratori venivano rispettati perché venivano prima di tutti gli altri. È necessario tornare a parlare di dignità del lavoro, di rispetto della persona, di giustizia sociale.

Nel suo tour in giro per l’Italia, vede più la rassegnazione di Antonio, il suo personaggio, o intuisce anche il desiderio di rivincita che esprimono oggi i risparmiatori veneti?

Mi commuove sempre, come è accaduto oggi, vedere gente che mi ringrazia, mi incoraggia, mi fa domande. Penso che più forte di tutto sia la voglia di tornare a essere una comunità, come un tempo, quando ci si trovava in piazza, si stava insieme e davanti si trovavano la chiesa e il Comune. Erano i nostri simboli.

Sta dicendo che in questa epoca vanno ritrovati i vecchi punti di riferimento?

Sto dicendo che per uscire da questo clima apatico, a volte soffocante e a volte spaventato, servono soprattutto, alle nuove generazioni, i luoghi e gli spazi che avevamo noi. Erano spazi incontaminati, perché si stava in piazza. Ora vedi che il centro delle città si è spostato in periferia e i gruppi di ragazzini, quando si trovano, lo fanno davanti ai centri commerciali o a edifici in cemento armato dove non c’è nulla.

A che luoghi si riferisce?

Penso ai teatri, che rischiano di chiudere sempre di più, ma anche agli oratori, che invece resistono. Io ci porto mio figlio e penso siano uno spazio educativo importante fino a una certa età. Intorno a questi mondi, oltre a quelli del lavoro, della scuola e della famiglia, va ritrovato lo spirito di comunità che si è smarrito. Sono le comunità sane quelle che salvano il Paese.

in “Avvenire” del 26 novembre 2023

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