«Mettere al bando le armi nucleari ora che sale il rischio d’escalation». Reticenze dell’Italia

Daniel Högsta, intervistato da Luca Geronico

Ican, la campagna per l’abolizione delle atomiche, Nobel nel 2017: sono 69 i Paesi che hanno aderito al Trattato per la proibizione degli ordigni più temuti. Altri, che pure non li possiedono, fanno resistenza perché alleati con i possessori della “bomba”.

«La nostra priorità è di accrescere il numero di Stati che ratificano il Trattato per la proibizione delle armi nucleari: questo è molto importante, anche da parte di Stati che non possiedono armi nucleari perché tutto questo accresce la percezione di illegalità relativamente all’uso delle armi nucleari. Questo è un passo decisivo per far sì che le armi nucleari siano, a tutti gli effetti, paragonate alle armi chimiche e biologiche» spiega Daniel Högsta, direttore esecutivo di Ican – la Campagna per l’abolizione delle armi nucleari – organizzazione premiata con il premio Nobel per la pace nel 2017. «Ci sono Stati, come ad esempio le Filippine e la Nuova Zelanda, che hanno forti legami militari con gli Stati Uniti e quindi non vogliono proibire le armi atomiche. Per questo ogni adesione aumenta la pressione verso gli Stati che hanno legami diretti con le armi nucleari come anche consente di aprire nuove forme di pressione politica con i Paesi che hanno varie forme di relazioni con le armi nucleari: con questo obiettivo stiamo lavorando con i Parlamenti di differenti Paesi e con le grandi città, in modo che facciano pressione sui loro governi».

Daniel Högsta, il secondo meeting degli Stati che riconoscono il Tpnw si terrà dal 27 novembre al 1° dicembre alla sede delle Nazioni Unite di New York. Uno dei punti chiavi del dibattito sarà sui meccanismi di verifica del Trattato. Questo mentre, in questi ultimi due anni, con la guerra tra Russia e Ucraina il rischio di proliferazione nucleare sta crescendo…

Uno dei motivi per mettere al bando le armi nucleari, ha sottolineato nei giorni scorsi una campagna online della rivista Nature, è che c’è un rischio reale di proliferazione nucleare, estremamente pericolosa. Alcuni Stati, di fronte a una situazione di globale instabilità, potrebbero così decidere per la loro sicurezza di dotarsi di armi nucleari. C’è di fatto una nuova corsa al nucleare con vecchie potenze come Usa, Russia e Cina impegnate a modernizzare i loro arsenali. Una tendenza preoccupante, ma proprio per questo siamo piuttosto fiduciosi che questo secondo meeting degli Stati aderenti al Trattato servirà a dimostrare che esistono già dei meccanismi sicuri di verifica effettiva del disarmo nucleare. Abbiamo un gruppo di studio composto anche di scienziati e con esperti delle università con un livello di specializzazione e di esperienza sul campo davvero molto elevato: si tratta di un contributo da parte della società civile che dimostra, a differenza di altri Trattati internazionali, che questa materia non riguarda solo i governi degli Stati ma che una rete di attori e istituzioni che sono attivi e si occupano di questa materia. Inoltre a New York, in sessioni multilaterali, vi saranno confronti fra i rappresentanti degli Stati ed esperti sulle conseguenze umanitarie di un attacco nucleare, come anche alcuni incontri con dei sopravvissuti a catastrofi nucleari.

Una mobilitazione per darsi meccanismi di controllo. Ma alla fine, ipotizzando una adesione la più ampia possibile, quale autorità è in grado di assicurare che il Trattato per la proibizione delle armi nucleari sia effettivamente rispettato?

Si tratta di un problema comune a tutti questi strumenti giuridici internazionali. In primo luogo, naturalmente, c’è lo stigma che il Trattato rappresenta: negli ultimi due anni la Russia ha minacciato numerose volte di usare l’arma nucleare provocando, dopo la prima riunione degli Stati aderenti al Trattato dello scorso anno, una condanna generalizzata che ha definito «inaccettabile l’uso di armi atomiche». Questa condanna internazionale ha costretto la Russia a non ripetere questo tipo di minacce contro la comunità internazionale: lo stigma internazionale serve a innalzare la soglia di condanna per l’uso di armi atomiche. Inoltre, come dicevamo, si stanno ponendo sempre più solide basi ai meccanismi di verifica del disarmo nucleare che speriamo vengano accolte e diffuse. Inoltre supponiamo che ogni governo che aderisce al Trattato – in questo momento sono 69 gli Stati aderenti – lo faccia in buona fede e che quindi non voglia andare incontro a una condanna internazionale. E poi sono gli accordi bilaterali: ricordiamo sempre che Usa e Urss ridussero dell’80% il loro arsenale nucleare con il controllo reciproco: il Tpnw può essere implementato con accordi multilaterali.

A proposito di pressioni sui governi, l’Italia anche dopo la campagna “Italia ripensaci”, non ha ancora aderito al trattato. Come sono le relazioni con il nostro governo?

Abbiamo invitato il governo ad essere presente come osservatore a questo secondo meeting, il Parlamento italiano ha approvato una risoluzione che lo auspicava, ma purtroppo abbiamo avuto una risposta negativa. L’Italia non sarebbe stato il solo Stato osservatore: Germania, Norvegia, Olanda e Belgio erano presenti al primo meeting fra gli Stati come osservatori. La Norvegia è membro Nato e gli altri tre Paesi, come l’Italia, sono membri Nato e ospitano armi nucleari. Quindi il rischio politico di una partecipazione dell’Italia come osservatore sarebbe stato estremamente basso. A tutto questo va aggiunto che l’Italia si è sempre detta a favore del disarmo nucleare per cui una sua non adesione al Trattato pare del tutto incongrua. Quello che dobbiamo fare è di continuare a lavorare con l’Italia che, materia contenuta nel Trattato, ha una buona esperienza nel soccorso delle vittime e nella bonifica ambientale. Per quanto ci riguarda continueremo a fare pressione finché l’Italia non avrà siglato il trattato.

«Da lunedì il nostro secondo meeting servirà a dimostrare che esistono già dei meccanismi sicuri di verifica effettiva del disarmo. Abbiamo un gruppo di studio di altissimo livello» Negli ultimi due anni la Russia ha minacciato numerose volte di usare il suo arsenale provocando, dopo la prima riunione degli Stati aderenti, una condanna generalizzata. Questa reazione ha costretto Mosca a non ripetere l’intimidazione contro la comunità internazionale: lo stigma serve a innalzare la soglia di riprovazione verso questa scelta.

in Avvenire, 25 novembre 2023

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