Nonviolenza. Aldo Capitini, un illustre teorico e testimone

FILIPPO LA PORTA

Aldo Capitini, assunto nel 1930 come segretario alla Normale di Pisa (licenziato l’anno dopo per il rifiuto di iscriversi al Partito Nazionale Fascista) aderisce al vegetarianismo. Tra lotta intransigente al regime e impegno a non uccidere le creature inermi del mondo animale (neanche i pidocchi, vuole la leggenda!), vi era per lui assoluta continuità. Di umili origini — madre sarta e padre custode del campanile municipale di Perugia — si definiva un “religioso laico”, sempre in conflitto con la chiesa. Arrestato due volte dai fascisti, scrive nel 1940, insieme a Guido Calogero, il manifesto del Movimento Liberalsocialista. Dopo la guerra insegnerà all’università diventando il teorico — e il testimone — più rigoroso della “nonviolenza” (senza trattino), fondando nel 1962 il Movimento Nonviolento e inventando la Marcia per la pace Perugia-Assisi. La nonviolenza nasce da una idea della politica come autoeducazione e non solo, machiavellianamente, tecnica di conquista del potere.

Il nucleo più originale del suo pensiero filosofico coincide con quello che potrebbe essere il suo limite principale. Capitini non accetta la realtà come è fatta, rifiuta un mondo di potenza e violenza, dove il pesce grande mangia quello piccolo, dove ogni essere vivente finisce nel nulla. A questa realtà difettosa contrappone una realtà diversa verso cui tendere, dove spariscono la finitezza e il dolore perché vi prevale un sentimento di “compresenza”, la “unità amore”.

Siamo ben oltre la solidarietà di classe del marxismo: si schiera con i “dimezzati” e i “battuti”. Un’attitudine definita “apertura religiosa”. Ma ne siamo sicuri? Implica piuttosto un atto dihybris, un dolce delirio di onnipotenza: Capitini è convinto che lui il mondo lo rifarebbe migliore! Eppure Dio nel Vangelo di Matteo fa sorgere il sole sui buoni e i cattivi… Nel nostro mondo sublunare tutto — misteriosamente — si tiene, la realtà è governata da un bilanciamento di forze che resta per noi imperscrutabile. Ivan Karamazov dichiara di rifiutare un mondo dove i bambini soffrono. Però così — gli è stato obiettato — vuole un mondo senza bambini! Davvero intendiamo giudicare, e correggere, la Creazione, che pure il suo autore considerò subito “molto buona”?

Tutta la grande letteratura ci mostra che la imperfezione della condizione umana — dove ogni nostro sentimento nasce proprio dal senso di impermanenza — è più “perfetta” di qualsiasi astratta utopia. Ma certo quella oltranza capitiniana, con tutta la sua radicalità, non può esserci del tutto estranea. Se la morte è, indubitabilmente, un fatto — dice Capitini — i morti però sono degli “eventi”, cioè molto più dei fatti, e dunque non scompaiono ma restano uniti a noi. Un giorno la realtà sarà liberata perfino dal suo limite naturale: «non c’è nessuna ragione per escludere la fine della morte». Leopardi l’avrebbe definita una “illusione”, benché altissima, ma le parole di Capitini ci fanno risuonare qualcosa. Quella apertura religiosa non è una dottrina quanto una pratica: è “vita migliorata”.
E qui veniamo al messaggio nonviolento, che fa di Capitini una delle grandi figure del ’900, paragonabile a Gandhi e Bertrand Russell. Richiamandosi alla Bibbia, a Socrate, a san Francesco, a Tolstoj e al satyagraha, precisa in innumerevoli libri e articoli, i contorni della nonviolenza: sia forma “immaginativa” di lotta politica (disobbedienza civile, resistenza passiva, digiuno, boicottaggio e sabotaggio, obiezione di coscienza), e sia attenzione quotidiana al prossimo, dunque un modo di essere al mondo. Non solo non fare mai del male a nessuna creatura, ma preservare la propria persona dall’odio e dai pensieri cattivi. Oggi ce ne vorrebbero di Capitini! Ma noi, convinti che pensare male degli altri significhi capire meglio il mondo, siamo davvero all’altezza di una “proposta” del genere?

Nonviolenza e verità sono in stretta relazione, poiché la verità consiste nell’unità di tutti gli esseri umani finora venuti al mondo. Qualsiasi violento nega la verità. Di qui la centralità assoluta del dialogo, la “decisione” di riconoscere gli altri nella loro interezza, di dissociare il peccato dal peccatore, di non umiliare l’avversario politico, di convincere piuttosto che vincere (una frase gandhiana che amava Pannella). È il «contatto sconcertante con il nostro fratello» di Ernesto

Buonaiuti. La nonviolenza di un “persuaso” non è mai pacificazione: richiede anzi più coraggio: Gandhi si stendeva a terra di fronte ai soldati a cavallo… L’attualità di Capitini sta nell’accento messo sul qui ed ora, sul dantesco “ben fare”. L’apertura nonviolenta ha un vantaggio: «l’individuo impara ad esigere un compenso, per la sua mancanza di potere, che non sia per lui solo ma che sia cooperativo». Probabilmente la sfera politica sarà sempre composta sia da obiettori di coscienza che dall’esistenza dei partiti. Ma un politico non dovrebbe smarrire del tutto l’idea di una prassi che ci migliora da adesso, di un “compenso cooperativo”, poiché non solo il fine non giustifica i mezzi ma in un certo senso ci sono soltanto i mezzi.

Un esempio di come Capitini vivesse la nonviolenza riguarda il nostro più prosaico quotidiano: «nell’aspettare il sonno io vivo questa “somiglianza della morte” come abbandono a tutti, e particolarmente ai silenziosi, a coloro che sembra non vivano più, abbandono amorevole ad una unità di tutti profonda». Abbandonarsi amorevolmente ai silenziosi mentre si sta cedendo al sonno: ecco una semplice preghiera che ogni laico potrà accogliere.

in “Robinson” del 12 novembre 2023

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