Narrativa. Michela Murgia. Parole a testa alta

SIMONETTA FIORI

Si può scegliere di morire appartati, lontani dalla luce dei media. O decidere di fare gran chiasso, un rumore quasi assordante da rimanerne storditi, forse per distrarsi il più possibile dal pensiero della morte. Solo gli amici intimi conoscono la verità più profonda di Michela Murgia, scomparsa a cinquantuno anni per la progressione di un tumore che era stato al centro della sua ultima campagna pubblica. È morta come ha vissuto, Michela. Aveva fatto della sua vita uno dei megafoni più potenti del discorso mediatico, e fino alla fine è rimasta fedele a un’autorappresentazione in cui era riuscita a sistemare la sua complessa esistenza.

È impossibile immaginarla priva di vita perché la vitalità era il motore primo della sua personalità travolgente. «Il senso spietato del non ritorno», così definiva la sua frenesia citando una canzone di Carmen Consoli, una voracità nell’agire che era andata crescendo dopo la malattia. Piccolina, forme morbide, lineamenti dissonanti rispetto al glamour televisivo, Michela Murgia è stata la prima vera star dell’arena digitale colta. Autrice di un solo autentico capolavoro, Accabadora, più che per le sue prove narrative o drammaturgiche sarà ricordata come il personaggio più rappresentativo del passaggio da una società letteraria tradizionale e a una società mediatica in cui conta, più delle idee, la forza di raccontarle e metterle in scena. E dove alla verticalità del sapere subentra l’orizzontalità del rapporto con i lettori, con il superamento di vecchie gerarchie e la nascita di nuovi generi narrativi ibridi.

Dotata di un talento comunicativo fuori del comune, è stata una delle prima a cogliere le potenzialità della rete. E se la tv con Le invasioni barbariche costituì la sua rampa di lancio, i social ne hanno rappresentato l’approdo più naturale, una sorta di habitat spontaneo adattato a misura della sua intelligenza fulminea e affilata, a tratti debordante nell’amore di polemica. Eccessiva in tutto, Michela Murgia. Eccessiva anche nella sardità etnica esibita soprattutto agli inizi della sua vicenda pubblica. Gli scialli ingombranti, gli abiti folk, la scelta dei temi della sua narrativa: ogni cosa rimandava a una civiltà arcaica, sospesa nel tempo e separata dal continente progredito. Nata a Cabras, il paese dei baroni in laguna, dell’isola incarnava il tratto etnicoidentitario, subalterno a un cliché nazionale che la condanna a un’immutabile rappresentazione mitica. Conseguente ne fu l’innamoramento per l’indipendentismo sardista che sfociò nel 2014 nella candidatura a presidente della Regione: una fiammata svanita nel deludente risultato elettorale che la rispedì in continente, lasciando orfano un dieci per cento dell’elettorato sardo. In realtà la sua stessa storia contraddiceva l’astrattezza e l’immobilità del separatismo isolano, nata in una famiglia senza cultura e cresciuta in un’altra che le diede la possibilità della conoscenza e dell’esperienza. La storia dei fillus de anima , meravigliosamente raccontata in Accabadora , nasceva dalla sua vicenda personale, “adottata” già diciottenne da una madre più vigile di quella sua naturale, la zia Annetta capace di guardarla nei suoi molti talenti. «Ognuno di noi cresce solo se è sognato», se è pensato con amore. La frase di Danilo Dolci, incontrato da bambina nella trattoria gestita da suoi, ne avrebbe segnato il destino. «Ero una domanda che richiedeva una risposta diversa da quella ricevuta dalla prima famiglia». In una lingua inconfondibile, asciutta e insieme espressiva, andava tessendo il racconto della sua vita. E nella sapiente manutenzione delle parole era custodito gran parte del suo tesoro.

Quando nel 2009 uscì il bestseller einaudiano che la rivelò al mondo – 250 mila copie solo in Italia, ventuno traduzioni all’estero, premi prestigiosi come il Dessì e il Campiello – Michela Murgia aveva già fatto mille mestieri. Insegnante di religione nelle scuole. Venditrice di multiproprietà. Operatrice fiscale. Dirigente in una centrale termoelettrica, anche portiera di notte. La sua esperienza nel call center di un importante multinazionale di Milano era finita in un blog e poi nel suo primo libro Il mondo deve sapere , da cui sarebbe stato tratto il film di Virzì Una vita davanti . Codici primitivi e tumultuosi cambiamenti della postmodernità si andavano fondendo nella sua scrittura, rivelatrice di una personalità capace di penetrare lo spirito del tempo. Talvolta di anticiparlo.

Il tema della maternità ritorna anche nel successivo romanzo Chirù , che narra il rapporto tra una maestra e il suo allievo più giovane di vent’anni, proiezioneforse di un maternage intellettuale inseguito dall’autrice con il suo interventismo mediatico. Ma siamo già fuori dalla narrativa convenzionale. Murgia rivendica il passaggio a una nuova era letteraria, in cui i personaggi nascono non dall’invenzione solitaria dell’autore ma dal confronto quotidiano in rete con i lettori. Twitter e social hanno colmato la distanza con l’artista, rompendo l’aura di sacralità intorno alla figura somma dello scrittore: un rovesciamento reclamato con preveggenza, non del tutto estranea alle ragioni del marketing. Ancora prima del romanzo, era stato un saggio teologico a rivelare la sua vera vocazione di comunicatrice pop: sin dal titolo, Ave Mary intrecciava il saluto sacro dell’angelo a Maria con una sensibilità femminile contemporanea. Da giovane cristiana dentro la Chiesa, raccontava di aver patito le rappresentazioni limitate e fuorvianti della donna, filtrate attraverso la figura di Maria di Nazareth. Femminismo e teologia si impastavano in «libro più di esperienza che di sentenza», dove tutte le argomentazioni teoriche nascevano dalla concretezza della vita vissuta. Un metodo di lavoro che l’avrebbe resa molto popolare nel mondo del web, specie tra il pubblico femminile, del quale percepiva istintivamente il disagio e la rabbia crescenti per lo scandalo della disparità di genere.

Dotata di antenne sensibili, Michela Murgia sapeva captare temi e tendenze che avrebbero caratterizzato il decennio. Femminicidi, diseguaglianze inaccettabili, frasi fatte che denotano un resistente maschilismo: i suoi interventi pubblici – in forma di saggio, di blog, di drammaturgia teatrale, di tribuna radiofonica, di podcast, di appuntamento televisivo o di rubrica settimanale come l’Antitaliana sull’Espresso guidano importanti battaglie civili al fianco delle donne, talvolta con una punta di veemenza che sconfina nell’ortodossia dell’asterisco o nel dare di roncola contro chi non aderisse pienamente alla sua religione del femminile. Anche sul tema del fascismo, fu abile nell’intercettarne un ritorno strisciante, ma alla sua maniera provocatoria e quasi ludica, inventrice di manuali e di fascistometri per misurare il nero che alberga in tutti noi. Sempre meno “domanda” – come si era definita da ragazza – e sempre più “risposta assertiva”, capace di scaldare i loggioni dei teatri e le platee televisive, Murgia è divenuta l’idolo della sinistra radicale ma ancor più d’una sinistra mediatica incline all’enfasi retorica, attenta ai like e alle mode più che a un’elaborazione politico-culturale für ewig.

Coraggiosissima, ha sfidato gli attacchi di una destra becera che non l’ha mai risparmiata, anche nella sua esposizione fisica. Lei non dava mostra di preoccuparsene troppo. E alle manganellate rispondeva con il suo gusto della provocazione, avvolta in boa di struzzo o impacchettata in sontuosi abiti da sera come alla prima della Scala da lei introdotta nell’anno del Covid. Umilissima ed arrogante, sapeva sedurre e sapeva anche respingere. Ribelle per ragione sociale, conosceva perfettamente la geografia del potere culturale italiano. E non lo disdegnava, non foss’altro per le sue buone cause. Al di fuori di una ristretta cerchia di amiche, fino all’esplosione finale, ha sempre parlato poco della sua malattia.

Diceva che il rischio era di diventare il suo cancro così evitava di farne il centro di gravità. Ha vissuto i suoi nuovi amori, dopo il matrimonio con un tecnico informatico più giovane. E ha raccolto intorno a sé nuovi compagni e compagne di viaggio, fino all’allegra famiglia queer che le è stata vicina negli ultimi giorni.

Ha anche scritto un libro dedicato alle generazioni a venire, Futuro anteriore, e forse c’era già un presentimento nel definirlo «il mio testamento». E agli ultimi racconti di Tre ciotole ha affidato la sua riflessione sul senso del vivere, coronata da quel matrimonio civile “controvoglia” in articulo mortis che voleva essere anche gesto politico: nel ruolo di “marito” il giovane regista Lorenzo Terenzi, ma sarebbe potuta esserci una donna, «perché nel prenderci cura gli uni degli altri non abbiamo mai fatto questione di genere». Un diverso modo di vivere l’amore, oltre la coppia tradizionale, che voleva fosse la sua eredità simbolica: «Un altro modello di relazione, uno in più per chi nella vita ha dovuto combattere sentendosi sempre qualcosa di meno». Una volta paragonò il suo tumore a un signore che s’è dimenticato il giornale sulla panchina. E se torna a riprenderselo? Ha fatto di tutto per non stare in attesa, ma la malattia è tornata a riprendersela. E lei l’ha accolta con tutta la forza vitale di cui era capace e che oggi merita di essere onorata.

in “la Repubblica” del 11 agosto 2023

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