La nuova colonizzazione dell’Africa

GIORGIO FERRARI

Le mani sull’Africa. «Una terra vergine, grassa, vigorosa e feconda». Così nel 1885 la definirono i potenti della Terra all’indomani della Conferenza di Berlino, che si proponeva di regolare il commercio europeo nell’area dei fiumi Congo e Niger e che di fatto diede il via a quello “Scramble for Africa” la forsennata corsa alla spartizione del Continente che fino allo scoppio della Prima guerra mondiale coinvolse la maggior parte delle nazioni europee, dalla Francia della Terza Repubblica all’Italia umbertina, dall’Inghilterra vittoriana al Belgio del sanguinario Leopoldo II .

Sembra ieri e in qualche modo lo è, visto che alla non troppo lunga parentesi della decolonizzazione africana si è sostituita nel corso degli anni una nuova corsa alle ricchezze africane non esente da calcoli eminentemente geopolitici. Protagonisti assoluti, la Cina di Xi Jinping, con il sistematico “land grabbing” di vaste porzioni continentali e da qualche anno la Russia di Putin, grazie alla capillare penetrazione della Wagner dalla Libia all’Eritrea, dal Sudan all’Algeria, dal Mali al Burkina Faso, dal Camerun al Sud Sudan, dalla Guinea equatoriale alla Repubblica Centrafricana, dal Madagascar al Mozambico, Zimbabwe. E ovviamente al Niger, protagonista in questi giorni del vorticoso tentativo di regime change con l’arresto del presidente Mohamed Bazoum: un golpe fomentato dalla Wagner del braccio mercenario di Putin Evgenij Prigozhin che ha travolto la breve stagione democratica del Niger, fino a ieri filo-occidentale e legato all’antico gendarme colonialista dell’Africa Occidentale, la Francia.

Ma sarebbe ingenuo stupirsi; dal 2020 a oggi l’intera area del Sahel è stata teatro di cambi di regime al di fuori della democrazia: prima il Mali, poi il Ciad, quindi il Burkina Faso e oggi il Niger sono flagranti dimostrazioni del neocolonialismo che torna a posare i propri artigli sulle immense ricchezze africane. Né desta meraviglia quello sventolio di bandiere della Federazione Russa a Niamey e quei «Viva Putin» scanditi da malpagati figuranti all’indirizzo dell’ambasciata francese: l’imperialismo neocoloniale russo prospera da tempo senza neppure fingere – come avevano fatto Bismarck, Napoleone III e gli inglesi un secolo e mezzo fa – di agire in nome della “mission civilisatrice”, come i francesi chiamarono la spartizione dell’Africa.

Oggi l’unica missione di Mosca è quella di agguantare terre, risorse, potere, senza più nemmeno il paravento ideologico che nei lontani anni brezneviani spingeva i volontari cubani ad affiancare i vari movimenti di liberazione in Angola, in Mozambico, nell’Ogaden, in Somalia, in Tanzania, nel Congo, in Sierra Leone. Ma le mani della Wagner (cioè di Mosca) sul Sahel non sarebbero state possibili se l’Europa e le ricche nazioni occidentali non fossero state in qualche modo complici dell’interessato disinteresse – è un ossimoro, certo, ma provate a trovarne un altro – che ha relegato Paesi come il Niger, il Mali, la Mauritania nel ben custodito recinto delle nazioni africane da tenere a bada con compiacenti manutengoli e viceré, nell’eterna convinzione che i popoli africani siano bambini incapaci di darsi un futuro.

Ed eccolo qui invece il futuro: un anticolonialismo che rinasce e ribolle da un capo all’altro della cintura dei deserti, da Boma a Karthum e che l’autoritarismo da gendarme d’Africa di Parigi non riesce più ad arginare. In quei varchi, in quegli anfratti lasciati scoperti del Nord del mondo si sono infilati prima i jihadisti, poi il soft power dei predatori cinesi, quindi i mercenari di Putin. Una terra vergine, grassa, vigorosa e feconda, si diceva centocinquant’anni fa. Sembra ieri. E chissà domani.

in “Avvenire” del 1° agosto 2023

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