Adattamento, mitigazione, migrazioni: le tre sfide della crisi climatica

DONATO SPERONI

Uno strano dibattito si è sviluppato su alcuni giornali dopo tragedia dell’Emilia Romagna. L’alluvione è stata provocata dal cambiamento climatico o da altre cause naturali? In fondo l’Italia ha sempre sofferto di queste catastrofi, si pensi alla grande alluvione del Polesine del 1951 o a quella di Firenze del 1966…

La domanda è mal posta: il territorio italiano soffre di numerosi punti di fragilità, ma il cambiamento del clima contribuisce a rendere più frequenti i fenomeni meteorologici estremi con le loro nefaste conseguenze. Solo una sparuta pattuglia di “negazionisti” rifiuta di ammettere il cambiamento del clima o cerca di attribuirlo a fluttuazioni naturali. Le implicazioni politiche sono evidenti: se la crisi climatica non esiste o comunque non ha cause antropiche, cioè legate alle nostre emissioni di gas climalteranti, tutte le misure che dovremmo adottare per la transizione ecologica non sono necessarie e anche il piano europeo REPowerEU e i vincoli per la decarbonizzazione al 55% delle emissioni entro il 2030, lo stop alle nuove auto a motore endotermico entro il 2035, la neutralità carbonica entro il 2050 possono essere buttati nel cestino. Di questo tema si parlerà certamente nelle prossime elezioni europee del 2024.

Come stanno davvero le cose ce lo dicono numeri e studi ormai inconfutabili. Innanzitutto i rapporti dell’Ipcc, il panel di migliaia di scienziati che sorveglia il clima per conto dell’Onu, ci avvertono che siamo ancora ben lontani dall’obiettivo di limitare il riscaldamento in questo secolo a 1,5 gradi, come previsto dall’Accordo di Parigi raggiunto nel corso della Cop 21 del 2015. Stiamo invece marciando verso i tre gradi e oltre, con conseguenze che in parte stiamo già subendo, come lo scioglimento dei ghiacciai, i fenomeni meteorologici estremi, le devastazioni provocate da siccità e alluvioni. Ma ci sono anche conseguenze in parte imprevedibili: l’innalzamento del livello dei mari cambierà la configurazione delle coste costringendo a spostare molte città (a Giacarta, in Indonesia, sta già avvenendo); lo scioglimento del permafrost, lo strato ghiacciato alle latitudini artiche, potrebbe non solo rendere instabili le costruzioni, ma sprigionare grandi quantità di metano imprigionato nel sottosuolo, con un forte incremento delle emissioni. Qualche studio ipotizza addirittura la scomparsa della Corrente del Golfo, che renderebbe il clima della Gran Bretagna simile a quello del Labrador.

Per noi le prospettive sono preoccupanti anche a breve termine. Le analisi del Cmcc, il Centro euromediterraneo sui cambiamenti climatici, ci avvertono che nel prossimo decennio l’area mediterranea sarà tra quelle più pesantemente investite dalla crisi. Già oggi, a fronte di un aumento medio globale della temperatura di 1,2 gradi, in Italia si è registrato un incremento di due gradi. Stiamo già vedendone le conseguenze: non solo le alluvioni, ma la siccità e l’inaridimento delle terre.

Che fare dunque? Dobbiamo affrontare tre problemi: l’adattamento, la mitigazione e le conseguenze sociali della crisi climatica.

L’adattamento riguarda gli impatti inevitabili: se anche il mondo come per miracolo si mettesse d’accordo per abbattere subito le emissioni, gli effetti positivi si vedrebbero nel lungo termine, forse nella seconda metà del secolo, ma dovremmo comunque fronteggiare un aumento di temperatura tra 1,5 e due gradi a livello globale e probabilmente di più nel Mediterraneo, come si è visto. Adattarsi al cambiamento climatico significa investire molto di più nella prevenzione dei fenomeni, che comunque è molto meno costosa delle ricostruzioni dopo le catastrofi. È necessario partire dalla consapevolezza delle fragilità del territorio italiano, troppo costruito in molte regioni, a rischio frane, con fiumi ingabbiati da argini inadeguati in caso di piena, senza difese contro la siccità. Il consolidamento idrogeologico e la costruzione di invasi per una migliore gestione delle acque devono essere tra gli impegni prioritari dell’azione di governo. Il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc) presentato dal ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica nel dicembre scorso, è stato sottoposto a discussione e dovrebbe al più presto vedere la luce in forma definitiva. Ma si tratta solo di una cornice, priva dei finanziamenti necessari per una effettiva azione di difesa del territorio.

Mentre sull’adattamento, a parte un po’ di polemiche strumentali sulle colpe della cementificazione passata e sulle responsabilità della gestione futura, è abbastanza facile raccogliere un ampio consenso politico, sulla mitigazione si accendono invece polemiche molto aspre. Ricordiamo che la mitigazione riguarda l’abbattimento delle emissioni climalteranti: un processo che funziona solo se è condiviso da tutti i paesi, soprattutto dai “grandi emettitori”: non solo i paesi industrializzati del G7, ma anche gli emergenti a cominciare da Cina e India. Nel dibattito italiano ed europeo sulla mitigazione ci sono due posizioni molto diverse. La prima vede l’Europa come “campione dello sviluppo sostenibile”: afferma che bisogna accelerare il processo di transizione verso l’elettrificazione degli usi energetici, assicurata da fonti rinnovabili come solare e fotovoltaico. È la linea della Commissione europea, sostenuta con vigore dal vicepresidente Frans Timmermans.

La seconda linea, esposta per esempio dall’ex ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani nel suo recente libro “Riscrivere il futuro: la transizione ecologica equa ed accessibile”,  afferma invece che l’Italia e l’Europa non possono accelerare il processo danneggiando la propria economia: sarà sì necessario abbattere le emissioni, ma è meglio attendere gli effetti di innovazioni tecnologiche ancora in gestazione, come il ricorso all’energia nucleare pulita, da fissione, o la carbon capture, la cattura delle emissioni di carbonio per immagazzinarle sotto terra, processo già sperimentato ma attualmente molto costoso. Chi raccomanda prudenza fa anche presente che l’Europa incide solo per l’8% circa sul totale delle emissioni globali. Quindi se anche i paesi europei si mostrassero totalmente virtuosi, gli effetti sarebbero molto ridotti.

I fautori di una transizione accelerata ribattono che comunque le emissioni in Europa provocano ogni anno circa 300mila morti premature (60mila in Italia) a causa dell’inquinamento atmosferico. Inoltre, non si può sfuggire alla responsabilità che grava sui Paesi industrializzati per aver contribuito finora a gran parte delle emissioni di anidride carbonica e degli altri gas climalteranti presenti nell’atmosfera. Se gli altri paesi non seguono, perché tuttora impegnati in un processo di crescita economica che richiede energia a buon mercato, questo è uno stimolo a fare di più nell’aiuto dei paesi ricchi al resto del mondo sotto forma di finanziamenti e cessione di tecnologie pulite. Ma è ovvio che tutto questo avrebbe un costo, così come avrà un costo il ricorso alla carbon tax ai confini europei dal 2026 per tassare tutti i prodotti inquinanti realizzati fuori dall’Unione con vincoli ambientali meno stringenti di quelli vigenti in Europa. La contrapposizione tra le due linee, quella per l’accelerazione e quella per il rallentamento della transizione ecologica, non è un dibattito teorico perché si ripercuote già ora: sui tempi di realizzazione degli impianti di energia rinnovabile, sul ruolo del gas naturale, combustibile di transizione, fossile ma meno inquinante il cui uso potrebbe prolungarsi per molto tempo con nuovi investimenti (il progetto di fare dell’Italia una “hub europeo del gas”);  sui tempi dell’auto elettrica; sulle normative per il risparmio energetico degli edifici e anche su un eventuale ritorno al nucleare.

L’attuale governo italiano non ha ancora espresso una linea chiara su questi punti: nelle dichiarazioni pubbliche si riscontra spesso scetticismo e voglia di negare l’importanza del cambiamento climatico (una parte della destra europea considera l’ambiente un discorso borghese e radicalchic), ma nell’operato concreto dei ministeri e anche nelle dichiarazioni di molti politici di maggioranza, per esempio nel corso dell’ evento di chiusura del Festival dello sviluppo sostenibile organizzato dall’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS) alla Camera dei deputati, si riscontra molta più concretezza. Il prossimo Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec) dovrebbe essere l’occasione che consentirà al nuovo governo di esprimere con chiarezza le proprie scelte. La bozza del Pniec dovrà essere predisposta entro giugno, con un anno di tempo, secondo i regolamenti europei, perché venga sottoposta a dibattito con la società civile prima di arrivare alla stesura finale entro giugno 2024. Con questo confronto potrebbe anche rafforzarsi la richiesta portata avanti dall’ASviS, ma anche da diverse forze politiche, perché l’Italia si doti di una legge sul clima come già fatto in altri Paesi europei.

In tema di cambiamento climatico, c’è poi un terzo punto che dev’essere affrontato perché inciderà pesantemente sul nostro futuro: il rapporto con i migranti. Previsioni attendibili parlano di centinaia di milioni di persone che nei prossimi decenni varcheranno il confine del loro Paese d’origine, da Africa, Asia meridionale, Sudamerica, perché spinti dalla crisi, dall’inaridimento delle terre in cui vivevano e magari da conflitti sulle risorse idriche. Si tratta di un nuovo tipo di “migranti economici”: migranti climatici difficili da rimandare indietro verso luoghi ormai inospitali. In un recente articolo l’Economist avverte che ci avviamo verso un mondo sempre più mobile. Le migrazioni sono necessarie all’Italia per evitare un eccessivo invecchiamento, la restrizione della popolazione e il declino capacità produttiva; ma non sarà facile trovare un equilibrio tra la spinta di una popolazione giovane che dal Sud del mondo è alla ricerca di nuove opportunità e le resistenze di una popolazione dei Paesi ricchi piuttosto anziana ed impaurita dal cambiamento. Finora abbiamo assistito a tanti slogan, da “non si può accogliere tutti” ad “aiutiamoli a casa loro”, che contenevano una parte di verità ma erano, appunto, slogan. Non abbiamo visto piani concreti a medio e lungo termine che ci dicano chi far arrivare in Italia, come accoglierli bene favorendo un insediamento stabile, e come intervenire nella cooperazione internazionale per radicare la popolazione in Africa e negli altri luoghi dove più pesante è la minaccia del cambiamento climatico e maggiori le fragilità sociali.

Articolo riportato sul sito: https://www.tuttieuropaventitrenta.eu/ del 20 giugno 2023