Dall’homo sapiens all’homo videns, con conseguente analfabetismo di ritorno

UMBERTO GALIMBERTI

Il 23 aprile 1996 l’Unesco ha fissato La giornata del libro con lo scopo di promuovere  “Il continuo progresso culturale attraverso la lettura, a protezione della pace, della cultura e dell’educazione di tutti i popoli”. Non è una faccenda morale la lettura, non è che chi legge è automaticamente migliore di chi preferisce dedicarsi all’orto, a scalare una montagna o a dilettarsi con giochi matematici. Però è certo che chi legge incontra mondi diversi, vede più cose dentro e fuori di sé, è indotto a comprenderne i sentimenti e i punti di vista, quindi anche i propri, allarga orizzonti di sapere, spiragli di consapevolezza, sviluppa l’immaginazione e, attraverso la molteplicità delle situazioni che incontra sulla carta, forse svilupperà tolleranza e comprensione verso le persone che incontra nella realtà. È una scommessa che va fatta e, per una come me che ha insegnato per quarant’anni, è un compito imprescindibile con i ragazzi, perché ci si incuriosisce alla lettura anche per imitazione.

Nel mondo si assiste a un arresto dell’alfabetizzazione che da diversi anni non si schioda da quel 47 per cento di analfabeti. In Italia il 70 per cento della popolazione sa leggere, ma non capisce ciò che legge (dati Ocse). Negli ultimi trent’anni siamo traghettati in una fase dove le cose che sappiamo, dalle più elementari alle più complesse, non le dobbiamo necessariamente al fatto di averle “lette” da qualche parte, ma semplicemente di averle “viste” in televisione, al cinema, sullo schermo di un computer, di un tablet, di un telefonino, oppure “sentite” dalla viva voce di qualcuno, dalla radio o dagli auricolari inseriti nelle nostre orecchie. A questo punto sorgono spontanee le domande: come la trasformazione della strumentazione tecnica modifica il nostro modo di pensare? E ancora: quali forme di sapere stiamo perdendo per effetto di questo cambiamento?

Questa perdita inizia con i libri della scuola elementare dove ci sono più figure che parole. Così si abituano i bambini all’“intelligenza simultanea” – che usiamo, ad esempio quando guardiamo un quadro dove è impossibile stabilire che cosa vada guardato prima e cosa dopo – a scapito dell’“intelligenza sequenziale”, che usiamo per leggere e che necessita di una successione rigorosa che articola e analizza i codici grafici disposti in linea. Se leggo la parola “cane”, la forma grafica della parola non ha niente a che fare con il cane, e allora la visione dei codici alfabetici comporta quell’esercizio della mente che deve tradurre i segni grafici in immagini. Compito questo  da cui la mente è esonerata se ai bambini si propone direttamente l’immagine, e quindi questa capacità andrà progressivamente perduta.

L’homo sapiens, capace di decodificare segni ed elaborare concetti astratti, è sul punto di essere soppiantato dall’homo videns, che non è portatore di un pensiero, ma fruitore di immagini, con conseguente impoverimento del capire, dovuto, come scrive Giovanni Sartori in Homo videns. Televisione e post-pensiero (Laterza) all’incremento del consumo di mezzi audiovisivi. E, com’è noto, una moltitudine che “non capisce” è il bene più prezioso di cui può disporre chi ha interesse a manipolare le folle.

Ma non si tratta solo di non capire le idee. Senza libri non si capiscono neanche le emozioni e i sentimenti, perché ci mancano i nomi con cui possiamo chiamarli e richiamarli, dialogare con loro, attutire la loro irruzione, assecondare la loro dolcezza, accudire la loro incertezza, ribaltarli persino, per scoprire quanto odio c’è sotto il nostro amore, quanta aggressività sotto la nostra cortesia, quanto disprezzo nasconde la nostra lode, quanto ignobile vizio sottende la nostra esibita virtù.

Il giorno in cui i libri diverranno archeologia, buoni per i musei, allora l’umanità sarà giunta all’ultimo scalino del suo degrado. E quei pochi individui che ancora leggono saranno guardati con sospetto da coloro che non leggono, e di cui c’è solo da augurarsi che non aprano mai la bocca né in pubblico per non mostrare, insipienti, il vuoto della loro mente, né nell’intimità per non far trasparire, quando non una disarmante banalità, l’afasia del loro cuore insipido, incapace di dar tono, senso ed emozione persino alle movenze standard del loro corpo. 

in La Repubblica, 06 luglio 2023

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