“Gioventù bloccata”. Inchiesta sulla condizione giovanile in Italia

L’Italia non è un Paese per giovani. Lo sentiamo ripetere da anni nei talk show, sui social network, ovunque. Valentina Magri e Francesco Pastore sgombrano finalmente il campo da facili slogan per rispondere ad alcune domande fondamentali: perché molti giovani italiani non trovano lavoro? E perché, quando lo trovano, fanno tanta fatica a essere assunti? Come mai le aziende lamentano di non trovare le persone giuste per certi ruoli?

Animati dallo spirito del “conoscere per deliberare” professato da Luigi Einaudi, i due autori mettono in fila in maniera chiara fatti e dati, toccano tasti dolenti con le loro analisi senza fare sconti a nessuno, fanno proposte concrete perché ciascuno faccia buon uso di queste informazioni. Genitori e insegnanti per orientare, politici e amministratori per implementare soluzioni più efficaci, ragazzi e ragazze per acquisire più consapevolezza. Vincitore della prima edizione del Premio Letterario di Saggistica Economica e Sociale del Sole 24 Ore, Gioventù bloccata è un’inchiesta tempestiva sulla questione giovanile in Italia, una delle grandi urgenze da cui dipende il futuro del nostro Paese.

Alcune delle parole chiave di questo libro possono servire per passare dalla teoria alla pratica. Per cambiare le teste. E cambiare il mondo del lavoro. Proprio a partire dal passaggio più critico, quello della transizione dalla formazione al lavoro.

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Prefazione di Eleonora Voltolina

Quando si parla di giovani, in Italia, e del problema della disoccupazione giovanile e dei giovani che non trovano la loro strada e che rimangono eterni Peter Pan a casa con mamma e papà fino a trent’anni e passa, ci sono tre grandi filoni di riflessione e narrazione.

Il primo è piangersi (e pianger loro) addosso, raccontandoli come vittime e selezionando accuratamente le storie più strappalacrime, gonfiando ogni difficoltà affinché acquisti le proporzioni di una tragedia e cercando i protagonisti più arrabbiati e disperati. Questo è un modo drammatico che piace molto ai giornali e in particolare alle televisioni, al «circo mediatico» insomma, perché fa notizia in senso sensazionalistico: anziché raccontare la vera realtà quotidiana di migliaia di giovani – una realtà media, mediamente difficile, con alti e bassi, con difficoltà ma anche storie di successo – fa molto più effetto puntare i riflettori sui casi limite, le storie commoventi, talvolta addirittura tragiche. «Povero ragazzo, ha fatto tredici stage non pagati, ha avuto settantasei contratti a progetto senza un vero progetto, ha tre lauree ma lavora in un call center, guadagna duecento euro al mese e vive ancora con i genitori, i nonni e nove fratelli. Il mondo è stato ingiusto con lui, non vi fa un po’ pena?»

Il secondo è dare la colpa a loro. Dire che se si trovano in questa condizione – poco valorizzati sul mercato del lavoro, poco pagati, bloccati in una eterna condizione di «figli» – è perché non sono abbastanza intraprendenti, non vogliono fare sacrifici e si aspettano di ricevere tutto su un piatto d’argento: «Ah, sapeste all’epoca mia, i fossi per lungo che ho dovuto saltare! E voi invece avete tutto e ancora vi lamentate!». Secondo questo filone colpevolista, se i giovani italiani si dessero una smossa avrebbero magicamente contratti di lavoro buoni, stipendi adeguati, possibilità di carriera appaganti. Ma sono bamboccioni viziati, che non si impegnano abbastanza.

Il terzo filone è, all’estremo opposto, deresponsabilizzarli, come se la loro condizione fosse una tragedia immutabile dovuta esclusivamente a fattori esterni: la situazione economica difficile dell’Italia, le ingiustizie generazionali perpetrate dalla politica negli ultimi quarant’anni, i tagli ai fondi per la pubblica istruzione, e poi le varie crisi economiche che si sono succedute, ora perfino la pandemia. È la visione fatalista in cui i giovani sono passivi, impossibilitati a incidere sul loro futuro se non in maniera marginale e spesso accidentale. «Avete avuto sfortuna, ragazzi, abbiate pazienza. Siete arrivati nel momento sbagliato.»

Il filone drammatico, quello colpevolista e quello fatalista si ritrovano pari pari anche nella narrazione dei problemi legati allo stage, di cui mi occupo da oltre dieci anni con la testata giornalistica che ho fondato, Repubblicadeglistagisti.it, proprio per dare voce ai giovani nel delicato momento di transizione dalla formazione al lavoro e proporre soluzioni per incentivare un utilizzo virtuoso dello strumento dello stage.

Per la cronaca, quando si parla di stage a questi tre filoni se ne aggiunge un quarto: quello negazionista, composto da coloro per cui il fatto che il tirocinio formativo abbia praticamente sostituito qualsiasi altra forma di ingresso nel mondo del lavoro, abbia per molti versi cannibalizzato l’apprendistato, venga troppo spesso abusato prevedendo stage anche per «imparare» mansioni elementari e ripetitive, e rappresenti di fatto un’alternativa immensamente conveniente per i datori di lavoro pubblici e privati rispetto ad assumere veramente, con veri contratti di lavoro, offrendo vere retribuzioni e tutele adeguate, non sarebbe poi così grave. (Fortunatamente i negazionisti non sono così tanti, ma quando ricoprono ruoli di potere, be’, è un bel problema…)

Ma la bella notizia è che c’è la prova provata che le cose possono cambiare: la nostra battaglia contro gli stage gratuiti, combattuta e vinta – anche se solo parzialmente, finora – con l’introduzione in Italia, tra il 2012 e il 2014, di una serie di normative regionali che hanno finalmente vietato la gratuità per i tirocini extracurricolari. La grande ingiustizia degli stage gratis è stata, se non risolta, almeno arginata, e a beneficiarne sono state le circa 350.000 persone all’anno che fanno stage extracurricolari in Italia (parliamo di numeri in anni pre Covid, naturalmente: nel 2020 le opportunità di tirocinio si sono praticamente dimezzate, e non per le buone ragioni, purtroppo). Sono rimasti fuori i circa – nessun organo ufficiale li conta – 150.000-200.000 stagisti curricolari, quelli che fanno uno stage mentre stanno svolgendo un percorso di studi formalmente riconosciuto, come gli studenti universitari o gli allievi di master: per loro la battaglia continua, perché possano avere le stesse garanzie e tutele.

Nei tre filoni a cui ho accennato si tralascia completamente, infatti, un piccolissimo dettaglio: e cioè che le cose, volendo, potrebbero cambiare. Anzi, si potrebbero cambiare. Non è scritto sulla pietra che due terzi della spesa pubblica per il welfare debbano essere spesi per forza in pensioni. Le politiche si possono modificare, anche invertire se necessario. E anche la cultura si può cambiare. La cultura in senso sociologico, ovviamente: quell’insieme concatenato di modi di pensare, sentire e agire appresi e condivisi da una pluralità di persone, in un dato territorio e momento storico. Oggi le famiglie italiane sono chiamate a fungere contemporaneamente da ammortizzatore sociale, centro per l’impiego, servizio per l’infanzia e perfino a dover garantire in banca il mutuo per l’acquisto della casa del pargolo (spesso ultratrentenne), che col suo contratto precario, o con il suo stipendio troppo basso – o entrambi – non offre sufficienti garanzie. Hanno appreso e condiviso questo ruolo, e lo svolgono come meglio possono. È una cultura che ha salvato la situazione per decenni, certo: ma è anche una cultura iniqua, perversa, che blocca l’ascensore sociale e perpetua le posizioni consolidate, condannando chi proviene da famiglie poco abbienti a restare ai margini e avvantaggiando, spesso senza alcun aggancio con il merito, chi invece può contare su una rete familiare privilegiata.

Alcune delle parole chiave di questo libro – «Conoscere per deliberare», innanzitutto – ritengo possano servire per passare dalla teoria alla pratica. Per cambiare le teste. E cambiare il mondo del lavoro. Proprio a partire dal passaggio più critico, quello della transizione dalla formazione al lavoro.

Il pregio del libro è quello di fare una panoramica della situazione senza sconti a nessuno. Viene raccontata la situazione, i fatti snocciolati uno dopo l’altro, perché ciascuno faccia buon uso di queste informazioni. I genitori e gli insegnanti potranno usarle per orientare meglio i propri ragazzi. I politici e gli amministratori pubblici potranno avviare riflessioni su questi dati, e se condividono alcune delle proposte avanzate dagli autori potranno magari provare a realizzarle. Ma la mia speranza è che anche qualche ragazzo senta una sveglia. C’è bisogno di ragazzi più consapevoli. Che sappiano salvare se stessi, certo. Ma che abbiano anche voglia di salvare il mondo (a volte vale la pena di pensare in grande!). Magari cominciando proprio a fare qualcosa in prima persona per cambiare il mondo del lavoro italiano, ancora ben poco accogliente e leale verso le nuove generazioni.

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Introduzione

C’è chi cerca lavoro, ma non lo trova. C’è chi si è stancato di cercarlo e chi non ci ha mai provato sul serio. C’è chi il lavoro ce l’ha ma non è comunque soddisfatto, perché si tratta di un lavoro precario o perché non possiede le competenze giuste per svolgerlo. Sono giovani, italiani, bloccati in situazioni lavorative spiacevoli, anche (ma non solo) per colpa della crisi innescata dal coronavirus e dall’inflazione.

Questo libro è dedicato principalmente alla gioventù italiana. Ma anche alle famiglie di questa gioventù, che si trovano dinanzi a un mercato del lavoro totalmente diverso rispetto a quello in cui sono entrati gli adulti in giovane età (sebbene non sempre se ne rendano conto).

Ci rivolgiamo inoltre alle scuole e alle imprese, anch’esse protagoniste del passaggio dei giovani dal mondo della scuola a quello del lavoro. Ci concentriamo infine su tutti coloro che desiderano tenersi informati su quello che accade oggi in Italia grazie a un’analisi di fatti e dati priva di pregiudizi: accademici, persone che a vario titolo si occupano delle transizioni scuola-lavoro, gente comune che vuole saperne di più sulla disoccupazione giovanile.

Ci piacerebbe contribuire, pur nel nostro piccolo, al dibattito tra scuole, imprese, politica, famiglie e giovani, sulla transizione dalla scuola al lavoro, al fine di riflettere sulle cause del difficile inserimento occupazionale dei giovani italiani.

Le pagine che seguono daranno voce sia a esperti di fama nazionale e internazionale sul tema del passaggio dalla scuola al lavoro sia ad alcuni dei diretti protagonisti di tale passaggio: giovani disoccupati, inattivi, manager, studenti che hanno partecipato a percorsi di alternanza scuola-lavoro e apprendistato, docenti e imprese che li hanno promossi. Nella redazione di questo saggio per ovvi motivi ci siamo avvalsi dei risultati delle ricerche di diversi autori. Ci scusiamo in anticipo con i lettori se qualcosa ci è sfuggito. Per tutti coloro che volessero approfondire il dibattito sul tema del lavoro per i giovani, a fine libro abbiamo inserito una bibliografia dettagliata con tutte le fonti e gli autori consultati, che cogliamo l’occasione per ringraziare per il loro contributo sul tema.

Il libro è strutturato in dodici capitoli. Nei primi due forniamo una spiegazione circa i problemi lavorativi dei giovani e inquadriamo il problema della transizione scuola-lavoro, specificando i diversi percorsi che la determinano (diploma/laurea/abbandono degli studi universitari), nonché i tempi associati e le percentuali di giovani italiani che seguono ognuno di questi percorsi. Ci soffermiamo inoltre sui tempi necessari per trovare un lavoro e su quello dei successivi passaggi da un lavoro precario a uno stabile, oppure sulla transizione dallo stato di occupazione a quello di disoccupazione o, peggio, di inattività. Nei capitoli successivi esaminiamo le cause della difficile transizione scuola-lavoro strettamente legate alla crisi dovuta al coronavirus (capitolo 3), alla scuola (capitolo 4), alle imprese (capitolo 5), ai giovani e alle loro famiglie (capitolo 6), all’economia italiana (capitolo 7). Nel capitolo 8 passiamo in rassegna i principali provvedimenti adottati dal governo italiano negli ultimi anni per favorire l’occupazione e l’inserimento dei giovani. Il capitolo 9 è dedicato all’analisi delle iniziative promosse da soggetti quali scuole, imprese e fondazioni per favorire l’inserimento o il reinserimento lavorativo dei giovani. Negli ultimi capitoli illustriamo ciò che a nostro avviso il governo e le imprese italiane (capitolo 10), l’Europa (capitolo 11), i giovani e le loro famiglie (capitolo 12) potrebbero fare per migliorare la transizione scuola-lavoro. Nelle Conclusioni riassumiamo i punti salienti del libro.

in Il Sole 24 Ore, online