Il disagio dei ragazzi e la solitudine degli insegnanti

FRANCO LORENZONI

Quale credibilità abbiamo noi adulti agli occhi dei più giovani, visto che continuiamo a ignorare le catastrofi annunciate?

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Ogni volta che si parla in generale della scuola si rischia di collezionare una gran quantità di superficialità e approssimazioni, perché la scuola è un corpo complesso dalle mille sfaccettature. Certo, se un gruppo di ragazzi interrompe la lezione in un istituto tecnico con bombolette puzzolenti si può essere portati ad affermare che quel gruppo sta mettendo in scena il senso di estraneità verso l’istruzione superiore che cova in troppe famiglie. Se poi uno di quei ragazzi, dopo qualche settimana, arriva ad accoltellare alle spalle la sua professoressa, c’è chi arriva a dire che tanto vale abolirla, la scuola, o almeno abolirne il nome, perché queste sono le conseguenze della troppa libertà.

Ma se ascoltiamo la professoressa ferita, ci accorgiamo che le sue parole sono assai più equilibrate. Dall’ospedale ha affermato infatti, con parole sagge, di “non avere una spiegazione per quel gesto. Ci penseranno i magistrati e gli psicologi, ma non penso si possa ascrivere a un disagio diffuso tra i giovani. Il malessere c’è, ma non porta a questi gesti”. Il grado di disagio e sofferenza degli adolescenti e sempre più anche di ragazze e ragazzi giovanissimi, già nella scuola primaria, è in spaventoso aumento. Tagli inferti al proprio corpo, autolesionismo, chiusura ermetica nelle proprie stanze, disturbi alimentari, tentati suicidi.

La pandemia ha costretto a vivere per intere stagioni il contatto come contagio in una età in cui il corpo è imprescindibile fonte di conoscenza e desiderio. Poi è arrivata una guerra, sentita assai più vicina delle tante che costellano il pianeta. E a rendere ancor più cupo il nostro tempo basta ascoltare il segretario generale dell’Onu, che lo scorso aprile affermava che “stiamo viaggiando ad alta velocità verso il precipizio del disastro climatico senza nessuno che si preoccupi di tirare il freno. Molte città sott’acqua, ondate di calore e tempeste senza precedenti, scarsità di acqua, estinzione di un milione di specie di piante e animali…”.

Anche se tutto ciò non lo si studia a scuola con l’attenzione che meriterebbe, quale credibilità abbiamo noi adulti agli occhi dei più giovani, visto che continuiamo a ignorare le catastrofi annunciate, puntualmente confermate da ciò che accade anche nel nostro paese. Ha allora senso dire che ragazze e ragazzi sono incontenibili, prepotenti e violenti per la troppa libertà che gli concediamo? Per gli effetti nefasti della “cultura dell’illimite”? Non sarà vero piuttosto il contrario? Non sarà che proprio gli orizzonti angusti dei lavori precari e sottopagati che li attendono rende opache le loro aspettative e accerchia e avvilisce il loro immaginario, in un paese saldamente nelle mani di generazioni anziane assai poco lungimiranti.

La scuola è il principale luogo pubblico di incontro tra le generazioni. Dovrebbe sempre essere il luogo dello scambio vitale tra esperienze e linguaggi che hanno radici diverse, oggi lontanissime per l’irrompere di tecnologie e intelligenze artificiali sempre più sofisticate.

Eppure constato che ragazze e ragazzi, ogni volta che incontrano insegnanti persuasi, appassionati e in ricerca, sono felici. E se trovano ascolto hanno mille domande da porre perché, nonostante tutto, è grande il desiderio di allargare il loro orizzonte. I ragazzi oggi hanno straordinario bisogno di ascolto e di cura e ben venga il supporto di psicologi all’altezza delle loro sofferenze. Ma il ruolo di noi insegnanti è diverso. La scommessa dovrebbe essere, a mio avviso, quella di considerare la cultura come cura, la relazione con le conoscenze e il sapere come terreno di incontro con se stessi e con gli altri. Ecco allora che sì, dobbiamo arricchire e trasformare la scuola per farne laboratorio attivo in cui tutte e tutti imparino a prendere la parola avendo fiducia di essere ascoltati. Per arricchire la lingua e renderci capaci di discutere, argomentare e rimbalzare su letteratura e scienza e arte scoprendone la meraviglia, ciascuno a modo suo, ragionandone poi insieme.

Anni fa Marianna, una mia alunna di quinta elementare, al termine di una ricerca durata mesi attorno all’affresco di Raffaello dedicato alla Scuola di Atene, ha detto: «Raffaello ha fatto veri i filosofi per metà, noi li abbiamo fatti veri per l’altra metà». Le sue parole mi appaiono come la più nitida descrizione di ciò che dovremmo ricercare a scuola, badando bene a non trascurare l’altra metà della verità, a cui ha diritto di accedere ogni studente con la fatica, il travaglio e il tempo necessario a ogni vera scoperta.

in La Stampa, 07 giugno 2023

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