Il disagio dei giovani di oggi. Una condizione allarmante, in rapida espansione

MASSIMO AMMANITI, intervistato da WALTER VELTRONI

Quando ho incontrato nel suo studio il professor Massimo Ammaniti, uno degli analisti più attenti della condizione mentale dei giovani, ancora non era uscito il rapporto della massima autorità sanitaria americana che con coraggio ha dichiarato: «L’uso eccessivo delle piattaforme sta facendo aumentare le diagnosi cliniche di ansia e depressione tra gli adolescenti, e le visite al pronto soccorso per atti di autolesionismo e intenzioni suicide: nella prima adolescenza, quando si stanno formando identità e senso di autostima, lo sviluppo del cervello è particolarmente suscettibile alle pressioni sociali, alle opinioni dei pari e al confronto tra pari».

Ammaniti, che ogni giorno parla, da psicoanalista dell’età evolutiva, con cinque o sei giovani, fa un’analisi non meno allarmata di quella che proviene dagli Usa. Dai giorni del lockdown, su questo giornale, abbiamo cercato di richiamare l’attenzione di autorità e società civile sugli effetti che il «breakdown» globale avrebbe avuto sui più giovani.

Mi dice Ammaniti. «Secondo uno studio internazionale negli adolescenti i disturbi di ansia sono passati dall’11 al 21 per cento e dal 10 al 23 i sintomi depressivi. Vuol dire che un ragazzo su quattro sta male. È bene lo sappiano i genitori, gli insegnanti, le autorità. Uno su quattro. Si sono moltiplicati i disturbi alimentari e i fenomeni di autolesionismo. E questo avviene specie tra le ragazze e specie nella prima adolescenza. Si registrano fenomeni di ritiro dalle scuole. In Giappone è nato il fenomeno dell’Hikikomori, ragazzi che escono solo di notte per non incontrare nessuno, che sigillano le finestre, che si ritirano dal mondo».

Questi sono gli effetti, moltiplicati dalla pandemia, ma le cause?

«Il dato nuovo, sul quale non si ragiona abbastanza, è la preponderanza del gruppo sulla famiglia. Si osservano gli adolescenti con l’approccio del passato. Si pensa, con Freud, che l’adolescenza sia il tempo di una pura riviviscenza di tipo edipico. Che cioè l’asse sia la contestazione del potere dei genitori e l’affermazione della propria autonomia attraverso l’esplosione del desiderio e delle fantasie sessuali che contengono un effetto liberatorio e introducono alla dimensione del piacere da vivere. In quel passato era nella famiglia che si consumava la socializzazione: i pranzi, le gite, la condivisione di esperienze come l’andare al cinema o in un museo. Il rapporto aveva una sua dimensione verticale. Era gabbia da sfondare ma anche quel bisogno di libertà era vitale, naturale, era una forma di energia. Ora è il gruppo dei coetanei la palestra dove allenarsi alla vita, quella in cui si realizza il proprio sé, la propria identità, nel fuoco di un rapporto di confronto con altri coetanei che ti giudicano, ti accolgono o ti respingono. Ma tutto avviene, diversamente dal passato, in una dimensione pubblica, nella fornace dei social che sono spietati e agonistici».

È la società senza padre, la società dei fratelli…

«Sì, ma i fratelli, quelli veri, non ci sono più. Se si fa un figlio è già tanto. Questo accresce il senso di solitudine. E così tutto si sposta nella dimensione del gruppo, in cui prevale costantemente il confronto con gli altri, il timore di un giudizio che ora circola velocemente e universalmente. L’adolescente aspetta il riconoscimento del gruppo e nel modo in cui gli altri ti guardano percepisce la propria immagine. Ma nel gruppo, inevitabilmente, c’è competizione, gelosia, talvolta sopraffazione e persino la tendenza a diventare complici. Il gruppo può diventare branco e spesso la coesione, garantita da un capo che ha la “cazzimma”, è data dalla violenza nei confronti delle ragazze o di chi è più debole, sia un immigrato o un dropout che dorme alla stazione. Nessuno pensi che, in fondo, è come prima. Se c’è una cosa che non bisogna fare è proprio questa. Identificare l’esperienza e la sofferenza dei ragazzi con il modo in cui i genitori hanno attraversato, nel passato, quel tempo della vita. “Quando io avevo la tua età…” è la frase che più li offende, che più li fa sentire inascoltati, che accentua la loro solitudine».

Quanto pesano i social in questa dimensione inedita del malessere giovanile?

«I social comportano molte cose che nessuna generazione ha conosciuto prima. Ci si deve autodefinire, si deve mettere il proprio volto e il proprio corpo in mostra, si misura quanti ti seguono. È molto facile diventare uno sfigato o un soggetto. È l’incubo più diffuso. E comunque si alimenta, al fondo, un timore del giudizio degli altri».

Ciascuno, per effetto dei social, ha o pensa di avere un suo pubblico, ma a 16 anni non si è strutturati per sopportare le tensioni di una permanente esposizione…

«Proprio così, questo sviluppa una paura paranoide degli altri e del loro giudizio, come se si fosse sempre sotto la spada di un tribunale permanente che può ferirti, anche gravemente. Pensiamo agli effetti del revenge porn per le ragazze. Valanghe che in un momento possono distruggere vite, come il bullismo nei social».

Conta anche la perdita della speranza? Guerra, crisi climatica, incertezza del lavoro. Come fanno i ragazzi a vedere la luce oltre il tunnel?

«Per effetto di tutto questo e della crisi dei grandi sogni collettivi è venuta meno la dimensione del progetto. Tutto è vissuto nell’immediato, tutto è qui e ora. Non c’è ieri e non c’è domani. E poi non ci sono più grandi riferimenti, sogni che accendano il cuore. L’unica è stata Greta Thunberg, ma anche il suo coraggioso e meraviglioso messaggio parla di una paura, più che di una speranza».

Mi sembra che questo tempo sia dominato da una parola: ansia…

«Esisteva anche prima, certo. Ma era direzionata: l’interrogazione, il voto, il lavoro da trovare, l’amore da scegliere. Ora è un sentimento diffuso e permanente, alimentato dal buio storico e dalla esposizione permanente. L’adolescenza adesso dura un tempo infinito. Io vedo persino dei cinquantenni che non accettano di non essere più ragazzi. L’uscita da quel tempo della vita si accompagna a una piena assunzione di responsabilità, individuale e sociale. Ora arriva troppo tardi. E poi ci sono pochi bambini. Mi colpisce pensare alla vigilia di Natale nelle case degli italiani. Si vive di più e dunque ci sono i nonni, se non i bisnonni, i genitori e poi un solo bambino, sul quale si riversa tutta l’attenzione e che diventa centrale troppo presto, diventa, e forse resterà, onnipotente».

Cosa devono fare genitori e insegnanti?

«Capisco il loro disorientamento. Spesso la famiglia è esplosa e i ragazzi devono convivere con conflitti e lontananze. Gli insegnanti sono stati deprivati di ruolo sociale e contestati — pensiamo alle terribili chat delle classi — fino a delegittimarne il ruolo in omaggio alla crociata permanente contro la competenza. Eppure per un adolescente trovare un insegnante entusiasta, capace di motivare e di ascoltare, è un conforto enorme. I genitori spesso esagerano, cercano di essere amici, persino confidenti e poi perdono facilmente la pazienza. Non devono essere intrusivi, ma devono fissare, cercando di condividerle, delle regole. Non devono farsi sopraffare dall’ansia, non devono chiedere e dare troppe spiegazioni, devono evitare un eccesso di psicologizzazione del disagio. Devono far venire voglia di parlare e , per farlo, essere disposti ad ascoltare».

A quale età è giusto che i ragazzi abbiano il cellulare ed è opportuno fissare regole dei tempi di consultazione?

«Ora spesso le tecnologie funzionano da babysitter. Si mettono i bambini davanti a un video per stare in pace. Ma secondo me non è giusto dare un cellulare in mano prima dei dodici anni, non è giusto che lo usino dopo le 21.30, e, sono sincero, penso anche io che in classe si debba stare senza questi strumenti che stanno diventando un arto e non più un mezzo di comunicazione. Restituire ai ragazzi la possibilità di fruire il tempo senza la segmentazione tipica dei social significa aumentare la soglia della loro possibile concentrazione e fornire tempo e libertà alla loro fantasia».

Un’altra parola chiave, non solo per gli adolescenti, è autostima. Mi sembra che ci sia ovunque un affannoso e fragile bisogno di certificazione di sé…

«È anche questo frutto della precoce e selvaggia esposizione di sé in pubblico. È un aspetto narcisistico. Ma è tutta la società a coltivare l’egolatria. Si è sempre e solo concentrati su sé stessi, ci viene insegnato che l’altro è un concorrente o un pericolo. Ciò che bisognerebbe far percepire è che l’autostima non è legata solo al giudizio degli altri o del gruppo ma è il risultato del superamento dei propri limiti, dalla capacità di mettersi alla prova, dalla disponibilità a perdere per poi, magari, vincere».

Un’ultima domanda: nella sua lunga carriera di psicoanalista, ripensando alle diverse epoche nelle quali ha incontrato ragazzi in questo studio, ha mai trovato una situazione così dolorosa?

(Il professor Ammaniti mi guarda e scuote la testa): «Prima il disagio dei giovani era un’eccezione, ora è un’epidemia. Bisognerebbe rendersene conto, in tempo. C’è da fare, ma non si può aspettare».

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