I negazionisti del clima

LUIGI MANCONI

Sbattere in galera chi nega la catastrofe? Gli scettici del cambiamento climatico vanno messi in condizione di non nuocere? Oppure le loro opinioni vanno considerate come un contributo alla discussione pubblica e al dibattito scientifico?

Prendiamola alla larga. Come tutte le Grandi Angosce (guerre, epidemie, disastri naturali) anche il cambiamento climatico irrompe nella psiche individuale e in quella collettiva come trauma, destinato a diventare oggetto di rimozione o a trasformarsi in tabù. L’enormità della posta in palio e il suo connotato epocale e minacciosamente definitivo (l’estinzione del pianeta) possono indurre a negare l’evento stesso, perché, innanzitutto, fuori dalla nostra portata. In altre parole, il cambiamento climatico è troppo per la nostra capacità di percezione e per il nostro spazio mentale; è troppo per la nostra possibilità di metterlo nel conto delle incognite; è troppo per la nostra volontà di intervenire per contrastarlo. L’esito è una sensazione di impotenza e, appunto, quella esigenza di rimozione.

Il negazionismo ambientale muove da questa radicata sfiducia in se stessi. E si capisce: come colmare lo scarto tra ciò che ciascuno di noi può fare (ovvero il nostro galateo ecologico) e fenomeni che appaiono, a ragione, incontrollabili? Come individuare una qualche relazione diretta tra i nostri comportamenti virtuosi (nella raccolta differenziata o nel risparmio idrico) e lo scioglimento del ghiacciaio dell’Adamello?

È questione sempre ardua da affrontare, tanto più in Italia, dove, per andare alle origini, la mancata riforma protestante, la gracilità dello spirito civico e la fragilità del senso di responsabilità individuale contribuiscono a rendere ancora più irriconoscibile il nesso tra locale e globale e tra scelte personali e destino universale.

È qui che dovrebbe intervenire la politica, che è proprio ciò che tiene insieme la sorte di ciascuno e quella di tutti, così come l’interesse immediato e la prospettiva futura. Da questo punto di vista, la destra patisce un limite strutturale, dal momento che la sua radice politica affonda nel qui e ora, in uno spazio territoriale circoscritto e in una scansione temporale limitata. È questa la vera ragione dell’impossibilità della destra di essere ecologista (le difficoltà della sinistra ci sono, ma hanno una diversa spiegazione).

E così, mentre la destra tende a prevalere in gran parte dei Paesi europei, la politica ambientale comunitaria risulta sempre più in affanno. È in questo clima politico che la negazione dell’emergenza climatica, sulla base di grossolani ragionamenti e di bizzarre analisi “controcorrente”, sembra diffondersi sempre più. E sempre più incontra consistenti grumi di antiscientismo (i No Vax) e si agglutina intorno a manifestazioni paranoidi di cospirazionismo internazionale.

Il consolidarsi di questo atteggiamento e della mentalità che lo ispira possono costituire, in effetti, un ostacolo rispetto all’adozione di politiche ambientali coerenti e di lungo periodo. Se questo è vero, e se il negazionismo ambientale rappresenta un’insidia per la capacità di reazione delle società, è opportuno ricorrere alla repressione penale per contrastarlo?

È quanto si è chiesto il politologo Gianfranco Pellegrino sul Domani del 23 maggio scorso, dando vita a un dibattito interessante. In proposito, c’è chi ha evocato la normativa italiana sul negazionismo in materia di Olocausto, ma il raffronto appare improponibile. È vero che nel 2016 è stata introdotta nel nostro ordinamento l’aggravante di negazionismo: un inasprimento sanzionatorio nel caso in cui le condotte contemplate dalla legge Mancino, di propaganda, istigazione e incitamento alla discriminazione, si fondino sulla negazione della Shoah, di crimini di guerra, contro l’umanità e di genocidio previsti dallo Statuto della Corte penale internazionale.

Tuttavia, la comparazione tra negazionismo della Shoah e negazionismo del cambiamento climatico mi sembra non stare in piedi. Nel primo caso, siamo di fronte a una tragedia consumata quasi un secolo fa, sulla quale il dibattito scientifico e la ricerca storiografica vantano una solida tradizione. E quella tragedia costituisce tutt’ora una ferita non rimarginata per l’intera umanità.

Nel secondo caso, si ha una controversia ancora aperta e fortemente divisiva. Non solo: nel caso della Shoah, il Parlamento italiano rinunciò a punire il negazionismo come reato autonomo, volendolo collegare, piuttosto, alla materialità di atti di discriminazione o alla capacità emulativa dei discorsi d’odio. E ciò proprio perché non voleva sanzionare penalmente le opinioni, nemmeno quelle più infami. Al punto che gli atti di propaganda, istigazione e incitamento, perché siano sanzionati penalmente, devono essere “commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione”. Non un mero, astratto, reato di opinione, dunque, ma una fattispecie di pericolo concreto.

Questo vale ancor più per il negazionismo in materia di clima. Pur se esso costituisce un pericolo per la realizzazione di politiche ambientaliste lungimiranti e uno strumento di possibile “manipolazione delle masse”, c’è una sola strategia utile a combatterlo: la conoscenza.

in “la Repubblica” del 2 giugno 2023

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