Intelligenza Artificiale (AI) ed Etica. Un legame imprescindibile

MASSIMO CHIRIATTI

Un giorno chiesero al grande matematico persiano al-Khwārizmī il valore dell’essere umano, così rispose: “Se ha Etica, allora il suo valore è 1. Se in più è intelligente, aggiungete uno zero e il suo valore sarà 10. Se è ricco, aggiungete un altro zero e il suo valore sarà 100. Se, oltre tutto ciò è una bella persona, aggiungete un altro zero e il suo valore sarà 1000. Però se perde l’1, che corrisponde all’Etica, perderà tutto il suo valore perché gli rimarranno solo gli zeri».

Era il medioevo e al-Khwārizmī, padre dell’algebra e dal suo nome latinizzato abbiamo derivato il termine «algoritmi», non poteva immaginare l’odierna intelligenza artificiale (Ia) e i dilemmi etici che solleva, nel bene e nel male.

Perché è importante l’etica nel conteso dell’Ia? Perché l’Ia non è intelligente ma incosciente, ora è attiva e cambia dinamicamente, sottolineando però che l’Ia non ha un fine autonomo, siamo noi che lo impostiamo. Pensiamo allora all’Ia come strumento, non come fine.

L’etica dipende da chi progetta e da chi usa lo strumento. Gli strumenti che hanno un certo grado di autonomia, come l’Ia, sono stati progettati con un fine. Quindi c’è bisogno sia di regolamentazione sia di etica. L’etica ci guida quando dobbiamo decidere e agire per raggiungere i nostri fini. Prima ancora di  insegnare qualcosa alle macchine, tramite gli algoritmi, dobbiamo comprendere a fondo i nostri pregiudizi (biases) – quelli dannosi, non quelli necessari –, perché la macchina non ha una coscienza e dunque ridurli sarà possibile solo se prima li riduciamo nelle nostre teste. Infatti, siamo pieni di pregiudizi e spesso non ne siamo consapevoli, e anche se lo fossimo, sarebbero molto difficili da accettare e da cambiare.

Gli algoritmi, invece, non hanno né opinioni né etica: siamo noi ad averle e, eventualmente, a trasmetterle alle macchine; quindi chiedere loro l’imparzialità sarebbe un paradosso, perché dovremmo prima di tutto rivolgerci a noi stessi, che siamo tutto fuorché imparziali e oggettivi. L’Ia agisce come uno specchio per guardare dentro sé stessi, in particolare studiando l’intelligenza (verso noi stessi) e l’etica (verso gli altri).

L’Ia è lo strumento migliore per ottenere il meglio dalle trasformazioni digitali, ambientali ed energetiche, però ci sono dei rischi da studiare per minimizzarli: i pregiudizi, che ci ripropone amplificandoli; la sua autonomia, che si basa sulla probabilità statistica; l’assenza di responsabilità morale; le diseguaglianze, che aumentano tra chi ha dati e fondi e gli altri che non riescono a competere; e in ultimo, non per importanza, le profezie che si autoavverano, creando per noi un loro futuro. A nostra e a loro insaputa.

Quindi l’Ia ci serve per il futuro, non per seguirlo, ma per cambiarlo. È peculiare in quest’ambito il fenomeno dell’eterogenesi dei fini (conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali), in concreto l’etica deve essere presa in considerazione all’inizio dei processi. In altri termini, se non è possibile prevedere tutti i risultati algoritmici emergenti dai dati, dobbiamo aspettarci -e saper gestire- conseguenze anche indesiderate. Del resto, i semi vengono piantati anni prima che diano i frutti: ci sono anni di cura davanti a noi. Noi, non il singolo, perché con l’Ia non dobbiamo rischiare la hybris prometeica o la folle ambizione di Icaro, perché sappiamo che in quei casi è finita male al singolo. Qui invece si rischia di combinare disastri che colpiscono gli altri, addirittura pregiudicandone il futuro dell’intera umanità. Come affermava l’artista e designer Bruno Munari «noi siamo quel che facciamo per gli altri». Lo siamo -e lo facciamo- soprattutto per via algoritmica oggi.

Gli algoritmi hanno un grande impatto sulle nostre vite, modificano la percezione della realtà, iniziano a guidarci. Siamo felici delle possibilità tecniche, però dobbiamo individuarne la direzione, perché le conseguenze, possono avverarsi in tempi rapidissimi. Non lasciamo da soli i tecnici, gli informatici, gli ingegneri, abbiamo bisogno di multidisciplinarità con umanisti come filosofi, sociologi, politici etc. che lavorino insieme.

in Il Sole 24 Ore, marzo 2023

Contrassegnato da tag