La trincea etnica di fronte alla minaccia dell’immigrazione

EZIO MAURO

Nell’esercizio camuffato dell’ideologia come arma politica, le parole hanno la funzione dell’avanguardia che esce allo scoperto per saggiare il terreno, misurare le resistenze del sistema, piantare le prime bandierine per contrassegnare gli spazi conquistati. Poi – se il campo è libero – arriverà la politica, occupando quegli spazi e traducendo in fatti quelle parole, spostando ogni volta più in là gli equilibri simbolici su cui si regge lo scambio quotidiano tra diritti e sicurezza che è alla base del contratto sociale tra il potere e il cittadino.

Dunque, per quanto possa sembrare strano, quando il ministro Lollobrigida parla di “etnia italiana da tutelare” non siamo davanti ad una gaffe o a un infortunio, bensì a un’esplorazione del territorio ideologico che può essere di volta in volta incorporato dalla moderna cultura di governo, al servizio dell’operazione in corso per trasformare la cifra della nostra civiltà secondo i canoni della destra estrema che oggi guida il Paese.

Nemmeno l’ignoranza, subito invocata dal ministro di fronte all’eco negativa suscitata dalla sua recente denuncia sul pericolo di una “sostituzione etnica” in Italia, è una scusante, anzi: prima di tutto perché viene esposta come una garanzia di innocenza, estranea alla competenza dell’élite e al sapere castale, e poi perché trasforma giudizi, timori e progetti dell’esecutivo in un moto dell’istinto, quindi in una sorta di pulsione spontanea, espressione naturale del sentimento popolare nazionale, o meglio del risentimento.

In realtà l’operazione non è per nulla casuale, perché c’è del metodo in questa teoria. Senza bisogno di dirlo, prima di tutto si evoca un paesaggio pubblico italiano dove la compresenza dei migranti e degli indigeni prende inevitabilmente la forma del conflitto, come se i due soggetti non potessero fare a meno di contendersi quello spazio vitale su cui entrambi insistono.

È una costruzione artificiale che non ha riscontro nella coesione sociale del Paese, ma viene venduta dalla politica con già il sistema d’allarme incorporato, segnalando l’immigrazione come un pericolo costante che chiama in gioco la sicurezza della popolazione nativa, il suo futuro e addirittura il suo destino.

L’immigrato dunque viene segnalato come portatore insieme di una minaccia, di una pretesa e di una sfida. Minaccia la nostra stabilità, pretende di coesistere su questo pezzo di terra che consideriamo nostro perché ci siamo nati, sfida l’equilibrio tra i diritti e i doveri che abbiamo costruito sulla misura di noi stessi, e che vorremmo gestire in esclusiva.

Perché se “l’etnia italiana ha bisogno di tutele”, vuol dire che qualche soggetto estraneo è intervenuto a sbilanciare quel meccanismo a danno della popolazione italiana, defraudata della sua titolarità tradizionale e mutilata dei vantaggi di cui era abituata a godere.

È il suggerimento governativo di considerare il migrante come l’ultima incarnazione dell’avversario. È il concorrente sociale, lo sfidante contemporaneo: cerca lavoro, e quando lo trova lo porta via a noi; lavorando si stabilizza, dunque si insedia e da transitorio diventa un problema permanente; scopre che il lavoro crea diritti, e crede che valgano anche per lui; la coscienza dei diritti suggerisce un’aspettativa di cittadinanza, quindi lui pretende di diventare come noi; infine lavoro e cittadinanza lo portano fin sulla soglia del welfare, che se è la trasformazione della carità in solidarietà e della beneficenza in diritti, non può escludere proprio chi come lui ha più bisogno.

È una concatenazione che va fermata perché la crisi ha rovesciato il senso comune tradizionale, e oggi bisogna tener conto di una nuova gelosia delle tutele, di un inedito egoismo delle garanzie, di una privatizzazione delle spettanze, come se tutto questo dovesse essere esercitato con riserva, trasformando il diritto in privilegio.

C’è un’altra concatenazione implicita, alla base di questa visione. È quella che raffigura il migrante come un occupante, un abusivo, un clandestino, comunque deviante, quindi un nemico che turba con la sua stessa presenza l’ordine sociale, rompendo il filo identitario della comunità, facendoci sentire globalizzati a casa nostra, sconvolgendo i nostri punti di riferimento.

Questa distorsione ideologica del problema si basa sull’ultimo nuovissimo comandamento: il migrante è portatore del peccato d’origine, inemendabile, ed è marchiato dalla colpa della povertà, che lo segna come membro di una classe per definizione subalterna, sterile dal punto di vista dei diritti, bandita nella sua aspirazione di emancipazione ed esclusa dalla concezione di libertà.

Poiché la libertà dei diseredati passa attraverso la conquista di un minimo di condivisione, lo spirito dei tempi la rifiuta: non è più un valore universale, non vale per l’intruso, e certamente non se è in concorrenza con le nostre libertà consolidate: comunque non oggi, o almeno non per tutti, in ogni caso non qui.

Siamo arrivati al discrimine che è il fondamento di questo nuovo concetto di società: l’invito a dividere, separare, scindere, distinguere tra le persone, attribuendo loro una categoria, catalogandole in gerarchia e disciplinandole su una scala che misura la differenza del loro valore sociale, quindi attribuisce una differente qualità alle diverse tipologie umane che ha creato in questa differenziazione.

Senza accorgerci che selezionando il migrante come diverso tra gli uomini e discriminandolo nelle sue aspettative, simmetricamente imprigioniamo anche noi stessi in una categoria ideologica, da contrapporre nella sfida quotidiana del vivere: diventiamo l’uomo bianco che certamente noi siamo ma che non ci siamo mai accontentati di essere, l’indigeno italiano presunto titolare di supremazia, il portatore di diritti come retaggio, che non nascono dalla libera dinamica sociale e dalla coscienza collettiva, ma da elementi primordiali come il sangue e il colore della pelle.

Nella presunzione che proprio quegli elementi ci diano la potestà di selezionare gli altri, la facoltà di separarci da loro, l’autorità per classificarli e l’arbitrio per costruire con ciò una nuova gerarchia sociale che ci protegga: noi soli, naturalmente, invece di aumentare la cifra della libertà per tutti, unica vera garanzia di sicurezza nella democrazia.

in “la Repubblica” del 15 maggio 2023

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