L’indifferenza è complicità. Corruzione e mafie vanno contrastate con l’impegno di tutti

LUIGI CIOTTI, intervistato da LUDOVICO GARDANI

Don Ciotti, dal sondaggio congiunto di Demos e Libera emerge che il Pnrr continua a essere nella percezione comune perlopiù una sequenza di lettere, una sigla. La preoccupa questo?

«È un dato preoccupante, certo. Che segnala un deficit di partecipazione e un eccesso di delega. Dai fondi previsti e dal loro mirato e onesto utilizzo dipende il rafforzamento di settori decisivi per la salute della democrazia. La pandemia ha messo impietosamente in evidenza che nel nostro Paese — ma non solo nel nostro — i diritti sociali sono diventati in troppi casi privilegi dipendenti da dinamiche di mercato: se sei ricco hai diritto a lavoro, casa, istruzione, assistenza sanitaria, altrimenti arrangiati, sono fatti tuoi. Questa logica selettiva, esclusiva, è la morte della democrazia delineata nella nostra Costituzione. A fronte delle ingiustizie sociali, ovvero ai furti di bene comune, occorre un impegno comune, e questa ridotta conoscenza del Piano che quel bene collettivo dovrebbe alimentare, è un segnale preoccupante».

Al tempo stesso però il sondaggio segnala il timore di molti — l’88% degli intervistati — che i fondi del Pnrr diventino in parte preda delle organizzazioni criminali…

«Mi auguro che vengano messe in atto tutte le misure e procedure per sventare questo rischio. Un primo segnale potrebbe venire dal Governo con la nomina di un presidente della Commissione parlamentare antimafia a quasi due mesi dalla sua istituzione. Nomina tanto più urgente anche a fronte di quanto è scritto nell’ultima relazione al Parlamento della Dia, la Direzione investigativa antimafia. Rapporto che ci consegna un quadro inquietante: da un lato il consolidato primato della ‘ndrangheta, la sua capacità d’infiltrazione a livello non solo nazionale ma mondiale, dall’altro la tenuta delle altre mafie, Camorra e Cosa Nostra».

Ma Cosa Nostra non è stata indebolita dall’arresto di Matteo Messina Denaro?

«No perché, a dispetto della trita retorica attorno alla figura dei capi “assoluti”, la mafia siciliana da tempo si è trasformata in un’organizzazione fluida e reticolare orientata anche a sfruttare settori redditizi e a basso rischio come quello del gioco d’azzardo e delle scommesse on-line. Credo sia ormai inadeguata la parola “infiltrazione” per descrivere il modo in cui le mafie inquinano il tessuto sociale ed economico, perché si tratta piuttosto di una coesistenza con tratti di connivenza. Si è prodotta un’osmosi tra i metodi delle mafie divenute “imprese” e i meccanismi di un sistema economico che protegge i monopoli impoverendo il bene comune. Da realtà“infiltrate”, operanti sotto mentite spoglie, le mafie sono diventate parti attive dell’economia di mercato. E tutto ciò nell’indifferenza di tanti, troppi, ancorati a criteri obsoleti di lettura del fenomeno mafioso, criteri che ne alterano la percezione. Arretratezza culturale che può aprire le porte alla trasformazione del crimine organizzato in “crimine normalizzato”».

E cosa occorre fare per impedire questa trasformazione?

«Rieducarci o educarci tutti, nessuno escluso, a una concezione della libertà come responsabilità. Le mafie ingrassano laddove si è prodotta una frattura tra interesse privato e bene comune, tra “io” e “noi”, cioè dove la libertà è intesa e praticata come arbitrio, rivendicazione di fare quello che si vuole anche se reca danno agli altri. È questo l’humus su cui attecchiscono corruzione, abusi, prevaricazioni. Per bonificare e dissodare questo terreno avvelenato e sterile occorre un enorme impegno educativo e culturale a cominciare dalle scuole. L’Italia investe nell’istruzione una parte del Pil molto inferiore a quello della media europea. Non è però solo una questione d’investimenti: si tratta di ripensare anche l’orizzonte del sapere e il modo in cui trasmetterlo».

In che modo, appunto?

«La scuola dovrebbe stimolare la capacità di porsi domande, di abitare i dubbi, di interrogarsi sulle contraddizioni e la complessità del reale. Dovrebbe cioè suscitare nel giovane futuro cittadino lo sviluppo di una coscienza critica affinché diventi artefice di progresso, custode dell’umano nelle sue infinite declinazioni e strenuo oppositore dell’ingiusto e del disumano nelle sue molteplici facce. Il modello attuale, invece, sembra preoccupato soprattutto di fornire risposte, dare istruzioni affinché gli studenti diventino efficienti impiegati di un sistema che sta sfruttando il pianeta e portando tutti noi nel baratro. È quel “paradigma tecnocratico” denunciato otto anni fa da Papa Francesco nella lungimirante, profetica, “Laudato sì”, dove si dice che crisi sociale e ambientale sono facce di una medesima medaglia. La scuola non può essere un’appendice dello status quo, dev’essere una spina nel fianco dei poteri “costituiti” e delle istituzioni, affinché non vivano di rendita e continuino a servire il bene comune. Se la scuola non è capace di guardare più in là della società di cui fa parte smette di essere scuola: diventa un’agenzia formativa che risponde a standard decisi altrove, secondo logiche industriali».

Che ruolo gioca l’informazione in questo processo?

«Decisivo, a patto di mettersi a sua volta radicalmente in discussione. Oggi il mondo dei “mass media” è profondamente condizionato da logiche di monopolio nella misura in cui da monopoli dipende. E questa rischia di essere la morte dell’informazione, che dovrebbe essere libera ricerca della verità senza riguardi per “padrini” e “protettori”. Solo un cambiamento culturale su più livelli, insomma, ci può permettere di costruire un mondo libero dalle mafie e da tutte le forme di complicità, sottovalutazione, omissione, distrazione che le rendono possibili. È l’indifferenza, come sempre, a fare la differenza. Indifferenza che ha reso la nostra Costituzione un testo tanto citato, a volte celebrato, quanto poco praticato, realizzato, vissuto. L’indifferenza è oggi una grande alleata del male. In un mondo sempre più interconnesso, dire “non mi riguarda” e voltare la testa dall’altra parte, è diventare correi, complici. La diffusione della corruzione e delle mafie non si combatte solo tenendosene lontani, ma denunciando, testimoniando, mettendosi in gioco».

In cosa si può sperare?

«Nei giovani, perché la gioventù è per sua natura aperta, partecipe, genuina. Se poi si chiude e si corrompe, è a causa del contatto col mondo degli adulti. Questo vale oggi come valeva ieri. Siamo noi adulti a doverci mettere in discussione quando parliamo di giovani. Noi a doverci chiedere quali riferimenti gli offriamo, quali strumenti, quali opportunità. Poi, certo, i giovani cambiano come cambiano i contesti sociali, ma i bisogni fondamentali restano gli stessi: il bisogno di essere riconosciuti, coinvolti, responsabilizzati e quindi di poter realizzare le proprie passioni e di metterle al servizio degli altri. Che poi è il bisogno — mai così urgente come in gioventù — di dare un senso alla propria vita. Ho incontrato e conosciuto, in oltre cinquant’anni d’impegno, diverse generazioni di giovani e ho riscontrato sempre questo bisogno, così come ho constatato che ogni volta che a un giovane si dà modo di esprimersi e mettersi in gioco, risponde alla grande. Per questo l’attenzione prevalentemente retorica rivolta ai giovani — questo preoccuparsi ma non occuparsi di loro — è uno dei grandi scandali della nostra epoca».

Contrassegnato da tag ,