Oltre la rassegnazione con la speranza che il 2023 sia un anno migliore per tutti

PAOLO NASO

Un paese malinconico, stanco, disincantato, impaurito. Secondo il consueto rapporto del Censis pubblicato qualche settimana fa, è questo il ritratto del Paese. Ci lasciamo alle spalle un anno che non ha mantenuto le promesse e che si chiude con preoccupazioni gravissime: il 61% degli italiani teme che possa scoppiare il terzo conflitto mondiale, il 59% è spaventato dal possibile ricorso alla bomba atomica, il 58% ha paura che l’Italia entri in guerra. Guerra: una parola terribile, familiare alle generazioni più anziane, ignota o percepita come distante per altre. Le guerre sono sempre e solo quelle degli altri, quelle che scoppiano in paesi lontani e molto distanti dall’Europa. La memoria è sempre molto corta perché neanche vent’anni fa l’Europa ha vissuto un’altra guerra ancora più vicina all’Italia, quella nei Balcani dove per altro proprio in questi giorni risorgono nazionalismi e odi etnici. Ma questa volta è una guerra più grande, che coinvolge una superpotenza nucleare e che ne mobilita un’altra. Una guerra che ci priva di risorse, alza il costo delle bollette e di cui, a oggi, non si vede una soluzione.

Ma oltre che impaurita, l’Italia fotografata dal Censis è malinconicamente rassegnata a un periodo di stagnazione. Nessun sogno, nessuna grande visione, nessun progetto che appassioni. Soltanto la triste convinzione che ciò che ci aspetta è peggio di quello che abbiamo vissuto. Ne sono perfettamente consapevoli tanti giovani. Molti di loro rinunciano a studiare e a cercare un lavoro; altri hanno già pronta la valigia per andarsene alla prima occasione. Intanto scoppiano nuovi scandali, goffi e volgari come certi film nazionalpopolari che ritraggono il peggio dell’Italia e degli italiani.

E poi non c’è la consolazione del calcio: un campionato mondiale svolto in un paese che non tutela i diritti umani; giocato in impianti che sono costati migliaia di morti sul lavoro; condizionato da lobby pagate per fare brillare la stella del paese che lo ospitava. E per giunta senza l’Italia, senza nessuna notte magica da ricordare e da raccontare a chi non l’ha vissuta. Un paese malinconico, dice il Censis, che non ha la forza di reagire ma neanche di arrabbiarsi. Meno male che ci sono i migranti, il capro espiatorio al quale addossare tutte le colpe. Per gli italiani non è una priorità, ci dicono i sondaggi. Anzi, gli italiani e gli europei, come attesta l’Eurobarometro che misura le opinioni dei cittadini dell’Unione, si rendono conto dell’importanza del lavoro degli immigrati e auspicano migliori politiche di integrazione. Ma la politica dice altro, e ogni giorno dispensa dichiarazioni allarmistiche e minacciose ribadendo che la questione migratoria è una delle grandi emergenze nazionali.

No, il 2022 non è stato un anno memorabile. E questa volta l’augurio di un buon anno suona meno retorico e convenzionale di altre volte. Vi sono molte ragioni per ritenere che per tanti giovani, anziani, lavoratori precari, per tante persone improvvisamente finite sotto la soglia di povertà, il 2023 dovrà essere un anno migliore. Sarà un sentimento ingenuo, illusorio, ma reale e condivisibile. La sfida è trasformare l’attesa in speranza. L’attesa è statica, rassegnata. La speranza è dinamica, aperta all’inatteso. La Bibbia è ricca di gradi storie di speranza in cui il dono gratuito di Dio si incontra con la fiducia e l’azione degli uomini e delle donne che hanno cercato di rispondere alla sua vocazione. A iniziare da Abramo che, come dice l’apostolo Paolo, «credette saldo nella speranza contro ogni speranza». È la forza della fede: sperare contro speranza. Per i cristiani è speranza in Cristo che ha amato l’umanità fino a sacrificarsi per essa. Speranza nel regno di Dio che fa nuova ogni cosa e illumina anche tempi di oscurità e malinconia.

Nei giorni di una smarrita rassegnazione, i cristiani percorrono questa strada e, pur tra mille deviazioni e smarrimenti, cercano di condividerla con altri uomini e altre donne: vivere la speranza in Cristo come dono, come fiducia nell’amore di Dio. La poetessa americana protestante Emily Dickinson la descriveva così: «È la “speranza” una creatura alata che si annida nell’anima – e canta melodie senza parole – senza smettere mai. … Nella landa più gelida l’ho udita – sui più remoti mari – ma nemmeno all’estremo del bisogno ha voluto una briciola – da me».

in “Riforma” del 6 gennaio 2023

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