Dominique Lapierre. É morto il celebre autore de “La città della gioia”

MARIO BAUDINO

La città della gioia (1985), scritto in forma di romanzo, è in realtà un appassionato reportage nella baraccopoli di Calcutta, così chiamata ma non per antifrasi dai suoi miserevoli abitanti, in cui Dominique Lapierre aveva però visto se non il fremito della speranza in senso occidentale, quantomeno una serenità che lo affascinò e determinò la sua storia. E’ morto ieri a Parigi (aveva 91 anni); da tempo le conseguenze di una brutta caduta e del successivo coma lo avevano tenuto lontano dal lavoro e dal pubblico. L’ultimo libro uscì per Rizzoli nel 2013 (Gli ultimi saranno i primi. La mia vita accanto ai dimenticati della Terra), mentre l’anno precedente il Saggiatore aveva pubblicato l’intenso India mon amour, a suggello di quella che è stata la sua grande passione e anche il terreno di un immenso successo; legato sempre al bestseller dell’85, portato peraltro sugli schermi nel ’92 con altrettanta fortuna, e nato dall’incontro con Madre Teresa di Calcutta.

Dominique Lapierre era un giornalista (di Paris Match), almeno fino a quando scoprì l’India e le sue grandi contraddizioni, i poveri più poveri, gli ultimi; ma già dal ’49 con Un dollaro mille chilometri si era affacciato sulla scena del reportage narrativo – spesso di lì in poi insieme al collega americano Larry Collins, col quale ha firmato molti titoli, anche in tempi più recenti. In un certo senso è stato però l’autore di un unico libro (nonostante la sua vasta bibliografia) perché La città della gioia ha in qualche modo segnato il suo destino non solo di scrittore, è diventato una sorta di manifesto, si direbbe di apostolato. Lapierre devolveva la metà dei suoi (cospicui) diritti d’autore a una associazione, una potente macchina di solidarietà, da lui fondata con la moglie, Action pour les enfants des lépreux de Calcutta (Azione per i figli dei lebbrosi di Calcutta), molto vicina al suo vero idolo locale, la suora albanese poi dichiarata santa; in lei – al di là dei «miracoli» che le si attribuivano – vedeva «lo strumento di Dio». La difese ed esaltò sempre, anche quando intorno alla religiosa si addensarono dubbi e polemiche, soprattutto per la sua visione del mondo decisamente reazionaria.

Lapierre, carattere entusiasta e innamorato del «bene», non se ne curava. «All’apparire di Madre Teresa – scrisse in un libro miscellaneo a lei dedicato – persone prostrate dalla sfortuna e dalla miseria s’illuminavano subito di un’espressione di felicità, di gratitudine, di fiducia. Come se la sola presenza di questa donna, che incarnava la carità e l’amore, dissipasse le paure, saziasse le pance vuote, ridesse la speranza». Questo gli bastava. L’ultimo viaggio nel subcontinente indiano è del dicembre 2011, come ricorda nel libro Gli ultimi saranno i primi (Rizzoli, 2012): «È al suono di un fervido Happy Birthday our beloved dada!, Buon compleanno, caro fratello, cantato dai dodicimilacinquecento studenti delle tre scuole che ho aperto nella piccola città di Bhangar, nel Bengala, che ho appena festeggiato il mio 80° compleanno e i 30 anni della mia crociata al servizio dei poveri di quella regione tanto sfortunata in un’India che soffre, è proprio il caso di dirlo, per lo smisurato numero dei suoi abitanti. Un’enorme torta decorata con 80 candeline e un bouquet di altrettanti palloncini pronti a prendere il volo mi aspettavano per la festa più memorabile della mia esistenza».

Già queste sue parole, anzi, il tono con cui le pronuncia (e le scrive, senza curarsi di problemi stilistici), dicono molto della popolarità conquistata dopo La città della gioia. Lapierre era un instancabile entusiasta, quindi contagioso, grande oratore la cui retorica in apparenza trasandata funzionava per accumulo, e funzionava soprattutto bene in moltissime lingue – compreso il bengalese, che parlava alla perfezione. I suoi libri, le sue presentazioni, i suoi discorsi in pubblico erano sempre degli eventi. Gian Arturo Ferrari, l’editore italiano per quanto riguarda la Mondadori – che ha pubblicato quasi tutti i suoi titoli – lo ricorda in Storia confidenziale dell’editoria italiana (da poco uscito per Marsilio) sotto la formula «Dominique Lapierre o dell’esuberanza». Lo definisce, anzi, come «una specie di colata lavica» che investe tutti, lettori ed editori, perché per lui «non c’è distinzione tra narrare e partecipare, tra comprendere ed emozionarsi».

La conclusione? Si può essere scettici finché si vuole – e chi più d’un editore è per definizione in bilico perenne tra gusto del rischio, cautela e scetticismo – ma è difficile restare indifferenti. Questa considerazione vale per tutti quanti lo hanno letto: la sua religiosità spesso ostentata, disposta a creder un po’ a tutto, da Biblia pauperum e quindi «facile» e sognatrice, va di pari passo con un attivismo davvero instancabile – e questo sì, sommamente «difficile» – che gli ha permesso non solo di scrivere libri di successo ma di realizzare imponenti opere di carità. E’ probabile che il primo aspetto sia figlio del secondo.

in “La Stampa” del 5 dicembre 2022

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