Degrado del territorio. Abusivismo edilizio, incuria, disboscamento, condoni, latitanza dello Stato

GIOVANNI MARIA FLICK

La frana di Ischia “celebra” il centesimo anniversario della legge Serpieri, il primo fondamentale intervento (regio decreto n. 3267 del 30 dicembre 1923) a tutela del vincolo idrogeologico del territorio per la sua salvaguardia, con il divieto rigoroso di trasformazione per il suo rimboschimento e rinsaldamento di fronte alla crescente domanda di esso per il pascolo e l’agricoltura. Con quel provvedimento si introdussero le prescrizioni di massima e di polizia forestale e la sistemazione dei bacini montani senza indennizzi, a differenza di altri vincoli, in vista di un interesse pubblico che prevale sugli interessi privati.

Il disastro di Ischia rappresenta l’ennesima conseguenza di un degrado del territorio che deriva dalla sua fragilità geofisica. Quest’ultima nasce sia da fattori climatici, sia dal suo consumo e cementificazione dissennata in un contesto di “anarchia urbanistica” e di abusivismo; si snoda in una catena ininterrotta di alluvioni e di frane. Una “tragedia annunziata” emblematica del consumo del suolo e del suo dissesto idrogeologico su scala nazionale, nei cento anni trascorsi dalla introduzione di quella legge, che rappresentò un primo passo dell’Italia unitaria per la difesa dai disastri ambientali.

Una tragedia che sottolinea ancora una volta l’urgenza di intervenire drasticamente per la tutela dell’ambiente, della salubrità e della salute in uno con quella della dignità umana, quest’ultima di fronte alla “rivoluzione digitale” con i suoi sviluppi prodigiosi e i suoi rischi.

Sono due temi fra loro strettamente connessi e intrecciati, come ricordava la presidente della Commissione europea all’atto del suo insediamento, a proposito della necessità di realizzare un modello innovativo di politica europea che tenga conto della sinergia fra l’ecologia e le tecnologie digitali dell’informazione e della comunicazione. La necessità di affrontare la transizione ecologica e quella digitale – al di là delle dichiarazioni di propositi e buone intenzioni a livello nazionale, europeo e globale per il pianeta terra – è un dato drammaticamente urgente per i problemi che coinvolgono le persone, le collettività e i Paesi per una svolta “epocale” del modo di vivere e di convivere.

Ambiente e sviluppo sono a un tempo fonti di attese e speranze, di paure e preoccupazioni. Lo sviluppo sostenibile deve assicurare un equilibrio fra entrambe. Deve confrontarsi con i rischi e non solo con i vantaggi della crescita tecnologica e con quelli della realtà ambientale. La diffusione delle informazioni in rete ha consentito in teoria un’ampia e globale presa di coscienza delle esigenze e dei risultati di quello sviluppo. Si pensi ai problemi in tema di crisi energetica e di produzione della “energia pulita”; a quelli di equilibrio tra i paesi sviluppati e i paesi in via di sviluppo sotto questo profilo; alla preoccupazione quando non al rifiuto della prospettiva di una “decrescita felice”.

Il problema del futuro – soprattutto con riferimento alle generazioni che seguono la nostra – viene percepito nella coscienza collettiva in modo diverso per il tema dell’ambiente e per quello della “civiltà delle macchine”. In quest’ultima le tecnologie digitali sono talmente sofisticate che stanno sostituendo la persona in compiti complessi, sino alle funzioni più connaturate alla sua identità e coscienza. Per l’ambiente sembrano prevalere la consapevolezza e la paura di fronte ai primi segni evidenti – come il riscaldamento del pianeta e il conseguente cambiamento del clima – di quello che potrebbe essere un nuovo diluvio universale. Per la civiltà digitale sembrano invece prevalere l’entusiasmo di fronte al progresso e la sottovalutazione dei rischi che esso può rappresentare in un contesto ormai acquisito e irrinunziabile di molteplici vantaggi.

Oggi purtroppo il mercato da strumento sembra essere diventato il fine. Prima, per troppo tempo è stato l’ambiente ad alimentare senza limiti il profitto; poi da qualche tempo si è riconosciuto che doveva essere (finalmente) il profitto ad alimentare l’ambiente. Ora si rischia di ritornare al passato attraverso l’utilizzo della tecnologia, se pure con il pretesto della preoccupazione per la tutela dell’ambiente e per il futuro.

Siamo rimasti troppo concentrati solo sul presente, ma una società prigioniera del momento attuale non ha memoria del passato e perciò non è capace di progettare il futuro. È un male oscuro dell’uomo contemporaneo e di questa società dell’immediatezza, della velocità e dell’efficienza, che rischia di diventare una forma moderna di schiavitù. La pandemia e la guerra ci obbligano a ripensare questo approccio, guardando anche alla memoria del passato e soprattutto alla prospettiva del futuro.

Il domani passa attraverso il modo in cui sapremo riqualificare le nostre città e ripensare le nostre foreste e le nostre campagne, attraverso un dialogo tra loro più proficuo: le prime sono l’emblema del profitto, le seconde e le terze sono l’emblema dell’ambiente. Città, foreste e campagne sono luoghi essenziali per la nostra vita: tra loro tanto vicine nella complessità, quanto lontane fisicamente e metaforicamente. La relazione tra ambiente e profitto le pervade (prima le città, poi le foreste, poi ora le campagne); su questo equilibrio (o meglio squilibrio) e su come lo regoleremo, si giocherà il nostro futuro in un cammino che va dall’una all’altra e viceversa. Un cammino che nel passato si è sviluppato in una attrazione dalla foresta verso la città (urbanizzazione) e che lascia intuire nel futuro una fuga dalla città e un ritorno ad essa dalla foresta, attraverso i borghi e la campagna.

Le città e le megalopoli sono uno degli emblemi di questa crisi diffusa e delle tante contraddizioni emerse durante l’emergenza sanitaria, sociale ed economica del periodo che stiamo vivendo. Per parlare di città dobbiamo interrogarci sul senso attuale dell’essere cittadini, sul concetto di città e sul significato della vita in essa, senza perdere di vista il legame umano e sociale che fonda una comunità e che non può ridursi soltanto a una dimensione burocratica o tecnologica. La corruzione, l’inquinamento, la privatizzazione degli spazi pubblici, la diminuzione del verde urbano, il costante peggioramento della qualità della vita (soprattutto nei quartieri più poveri), il disinteresse e la discriminazione dei «diversi» hanno profondamente inciso sull’anima delle città. Un’anima che oggi è ferita, smarrita, disorientata. Allo stesso modo, la foresta rappresenta, con la sua multifunzionalità, una delle principali scommesse ambientali per il futuro; è fondamentale individuare il punto di equilibrio tra la sua funzione ambientale e quella economico-produttiva. Anche nella campagna si gioca infine il destino dell’umanità, con i riferimenti alle risorse alimentari, allo spopolamento, alle nuove tecnologie di coltivazione e di produzione agricola, alla economia circolare e alla green economy. Oggi ci si rende finalmente conto che non si può prescindere dall’intervento dell’uomo nella foresta e nella agricoltura, non per depredarla ma anzi per aiutarle a seguire il proprio corso naturale. Tuttavia le dinamiche umane, tra cui spicca il diritto, rendono ancora troppo difficile l’accesso e la regolamentazione di quell’intervento.

L’articolo 9 della nostra Costituzione propone un trittico tra passato e futuro, legati fra loro dallo sviluppo della cultura e dalla ricerca scientifica e tecnica. Inoltre propone dal punto di vista costituzionale e giuridico una premessa fondamentale per seguire il percorso “dall’informazione all’informatica” e la transizione inevitabile verso una società ecologica e digitale. Questa conclusione è fondamentale oggi, in quella che tutti ci auguriamo possa essere la risposta al drammatico stress test rappresentato per la nostra convivenza dalla pandemia e da tutte le sue implicazioni e conseguenze sui temi dell’ambiente, dell’informazione, delle relazioni umane; e soprattutto dal dramma e dall’incubo della guerra, nella sua nuova dimensione geopolitica, tecnica e globale. Per questo è necessaria una lettura dell’articolo 9 della Costituzione che – accanto alla attenzione verso la storia e l’ambiente – tenga conto dell’evoluzione del progresso tecnologico per cogliere anche rispetto ad esso, se possibile, qualche indicazione rassicurante sul nostro futuro alla luce del nostro passato. A ciò cerca di rispondere la recente riforma, nel febbraio del 2022, dell’articolo 9, che è uno dei “principi fondamentali” del nostro sistema costituzionale. Questa indicazione muove dalla lungimiranza, dalla saggezza e dall’attualità della nostra Costituzione e prima ancora da quella del Libro dei libri, la Bibbia, al di là del suo significato religioso. È la speranza di evitare un nuovo diluvio universale; ma anche quella di evitare nell’euforia per lo sviluppo tecnologico la disattenzione verso il pericolo di una nuova torre di Babele; prima ancora di evitare il “dominio” di una “civiltà delle macchine” sull’uomo o quanto meno la conflittualità fra le due “civiltà”. Non più la macchina strumento per l’uomo, ma quest’ultimo strumento della prima, grazie anche all'”algoritmo d’oro” che ha sostituito il vitello d’oro di biblica memoria.

Ciò apre la via ad un altro interrogativo: il rapporto fra la natura e l’evoluzione tecnologica che ci ha portato rapidamente a risultati insperati; ma che ci ha portato anche ad una serie di problemi nuovi non conosciuti, forse non prevedibili sino a poco tempo addietro e non facilmente risolvibili.

Si tratta sia dell’esplicito richiamo dell’articolo 9 all’ambiente e agli ecosistemi, in aggiunta al paesaggio; sia del riferimento dell’articolo 9 all’interesse delle future generazioni, sullo stimolo di una pronunzia del Tribunale federale tedesco del 2021; sia della conseguente modifica dell’articolo 41 della Costituzione che condiziona la libera iniziativa economica al rispetto dell’ambiente e della salute, oltre a quello della sicurezza, libertà e dignità umana.

Le modifiche richiamate consolidano un percorso interpretativo già avviato dalla giurisprudenza nonché dalla dottrina. Soprattutto esse propongono un principio di “giustizia intergenerazionale” riconducibile al principio di solidarietà. Da quel principio discendono l’indicazione e l’obiettivo di uno sviluppo sostenibile già riconducibile alla modifica degli articoli 81 e 97 della Costituzione nel 2012.

La recente modifica dell’articolo 9 e dell’articolo 41 è passata quasi inosservata nell’indifferenza generale, al di là delle solite celebrazioni retoriche. Eppure testimonia l’impegno doveroso alla transizione ecologica e a quella digitale: due svolte di grande rilievo per il futuro del pianeta, dell’Europa e del nostro Paese di fronte al rischio del secondo diluvio universale, della seconda torre di Babele e dell'”algoritmo d’oro”. È una modifica che testimonia l’attualità della nostra Costituzione con qualche adeguamento necessario; non con la sua demolizione in tutto o in parte o con l’uso spregiudicato di essa per manovre politiche della quotidianità e della nostra perenne campagna elettorale.

Una Costituzione attuale ma non attuata, almeno in parte, con l’alibi e la copertura delle sua anzianità che ne giustificherebbe il cambiamento più o meno radicale. Quella modifica è importante. Segnala il cambio di prospettiva dall’antropocentrismo esasperato al suo equilibrio con l’ecocentrismo anche attraverso l’impegno alla tutela della biodiversità. Quest’ultima va scomparendo velocemente ma è uno degli indici più significativi della sostenibilità ambientale, aggredita e mesa in crisi dalla logica del profitto e del potere. Le specie animali e vegetali sono minacciate da sovrasfruttamento, inquinamento, specie aliene, cambiamento climatico. Si rischia di perdere una ricchezza della natura che si esprime nella diversità genetica delle specie e degli ecosistemi; ma negli ultimi cinquanta anni ha registrato l’aumento e la crescita a livelli non più sostenibili dei danni da disboscamento e da caccia.

in “La Stampa” del 4 dicembre 2022

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