Iran. Coraggio ed eroismo delle donne contro l’integralismo religioso islamista

Laura Silvia Battaglia

Per Ali Kamenei, l’anziana Guida Suprema del clero sciita, le proteste di piazza scoppiate in Iran dopo il 16 settembre scorso, a seguito dell’uccisione di Masha Amini – la ragazza del Kurdistan iraniano arrestata perché non portava correttamente il velo islamico e ridotta in coma mentre era sotto custodia della polizia morale di Teheran – sono sommosse organizzate da Usa e Israele, con il sostegno di “Stati vassalli” come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Paesi che hanno soffiato sul fuoco e continuano a farlo, sostiene Khamenei, “utilizzando la povera Masha Amini come pretesto” così come in passato, o in futuro, ne hanno trovati e ne troveranno degli altri per ostacolare la Repubblica Islamica d’Iran.

Questa lettura dei fatti di piazza e di quanto sta accendo nel Paese, in linea con le tesi complottiste che spesso animano la stampa e l’opinione pubblica locali, hanno un minimo fondo di verità, nella misura in cui c’è stato in passato tutto l’interesse, da parte della CIA, durante la rivoluzione di Mossadeh negli anni Cinquanta, di sabotare quel processo democratico per motivi di approvvigionamento energetico. Ma, per quanto l’interesse a rovesciare la Repubblica Islamica ci sia ancora, e anche l’opportunità e i mezzi per farlo, non siamo più negli anni Cinquanta: la Repubblica Islamica ha almeno cinquanta anni di vita, è solida e stabile, al punto che fatica ad essere messa al tappeto anche dalle sanzioni inflitte a Teheran dalla comunità internazionale, e non è così facile “sabotarla” con l’azione degli agenti esterni.

Queste considerazioni di Khamenei, condivise negli ambienti politici conservatori, e accettate anche dai più convinti nazionalisti iraniani, non necessariamente troppo adulti, però, non fanno i conti con il mondo che cambia, con le nuove generazioni del Paese native digitali ed esperte nell’uso del web, con i rigurgiti del Movimento Verde pre-2011, con il post-Covid, e con una rabbia che supera le opportunità del quieto vivere, oltre che con cinquant’anni di governi della Repubblica, sufficienti a più generazioni per rendersi conto di cosa funziona peggio in un sistema che difende sì l’interesse nazionale, ma chiede troppo ai propri cittadini. Indubbiamente chiede troppo soprattutto alle donne, le più determinate in queste rivolte di piazza, le più coraggiose. Vittime come Masha Amini, come Iman Mohammadi, e come molte altre, sono state e sono ancora protagoniste, e lo sono a qualsiasi costo che è quello più alto e ultimo: la vita.

“Donne, vita, libertà” è lo slogan inedito, rispetto a tutte le precedenti proteste, a partire dal 1999, che queste giovanissime e i loro compagni e amici giovanissimi hanno lanciato; le precedenti partivano sempre da motivazioni politico-economiche: brogli elettorali, caro benzina, trasparenza sul caso del crollo dell’aereo civile ucraino con 197 passeggeri a bordo, dopo l’uccisione in Iraq del generale delle brigate al-Quds, Qassem Soleimani, target dei droni americani. Ma, questa volta, la natura delle proteste è profonda, diffusa, costante. Chi manifesta non ha paura perché ritiene che vivere sotto il regime degli ayatollah, nell’epoca attuale in cui i falchi conservatori hanno occupato tutte le posizioni di potere disponibili, “non è più vita”.

È richiesta di giustizia e di equilibrio, in termini di affermazione e difesa della propria identità, ma è anche richiesta di un futuro in cui questa identità possa essere espressa senza coercizioni insensate e ingiuste. È un fatto che, da quelle elezioni, il ruolo della polizia morale e religiosa in Iran sia diventato ancora più oppressivo, e che la stretta sulla legge dell’obbligatorietà del velo nella Repubblica Islamica dal 2010 sia diventata un’ossessione e un pretesto per gli arresti, come deterrente sociale. E pensare che, per limitarci solo a questo, anche alcune apprezzate teologhe conservatrici iraniane avevano sconsigliato gli esecutivi di imporre la stretta definitiva, perché, islamicamente, “non c’è costrizione della religione” e meno ancora nell’imposizione della copertura del capo per legge dello Stato nell’unico Paese islamico che la prescrive nero su bianco dal 1983.

Ma essere più realisti del re ha questo effetto e, adesso, di fronte a un movimento di piazza che è anche privo di leadership, la Repubblica Islamica ha davanti due soluzioni: non arrestare nessuno in particolare o – come ha già fatto in parte – arrestare e condannare tutti, con conseguenze che saranno più gravi di ogni sanzione, anche senza bisogno di ingerenze esterne.

Laura Silvia Battaglia è giornalista professionista freelance e documentarista specializzata Medio Oriente e zone di conflitto, con particolare focus su Yemen e Iraq.

in “www.vitaepensiero.it” del 19 novembre 2022

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