Respinge i barconi e dimentica i giovani. l’Italia rischia il suicidio demografico

ELSA FORNERO

Come i disperati che affrontano il mare agitato in cerca di rifugio e di migliori prospettive di vita, anche il nostro Paese non riesce a sottrarsi a continue tempeste e a ritrovare una più tranquilla navigazione che porti il Paese a crescere e i suoi abitanti più fragili a stare meglio e a guardare al futuro con maggiore fiducia. Anche i rapporti con i partner europei riflettono il nostro continuo dibatterci da un’emergenza a un’altra: chiediamo solidarietà all’Europa per ogni shock negativo ma non vogliamo che l’Europa ci “riprenda” per scelte e comportamenti scarsamente compatibili con i principi e gli obiettivi ai quali l’Europa si ispira. Anzi, contestiamo quegli obiettivi, talvolta apertamente denigrandoli, come avviene nel caso delle richieste di sostenibilità finanziaria delle politiche di bilancio, e quindi di riduzione del debito, o delle politiche a favore della concorrenza che, riducendo i prezzi, potrebbero migliorare la capacità di acquisto delle famiglie in modo non dissimile da un aumento delle retribuzioni.

È questa incapacità di alzare lo sguardo per guardare lontano che ha portato il governo vicino a una crisi nelle relazioni con la Francia, ad agitarsi moltissimo per la “pagliuzza” rappresentata dagli sfortunati (ma non abbastanza “fragili” da consentirne lo sbarco) della Ocean Viking, ignorando la trave nel nostro occhio, rappresentata dall’enorme squilibrio demografico tra le due sponde del Mediterraneo. A Sud, in Africa, centinaia di milioni di nuovi giovani si affacceranno all’Europa nei prossimi decenni; a Nord, la stessa Europa perderà qualche decina di milioni di nuovi nati. Uno squilibrio di tale portata non si risolve con blocchi navali o bracci di ferro tra una nave di soccorso e un governo o tra governi europei.

Questo squilibrio, peraltro, è aggravato, nel nostro caso, dall’emigrazione di italiani verso l’estero. I numeri parlano chiaro e non da oggi – come mostrato dal recentissimo Rapporto Caritas sugli Italiani all’estero – ma hanno scarsa eco nel dibattito politico e nei media. Mentre rifiutiamo o rendiamo difficile e umiliante l’accesso in Italia ai giovani dei paesi poveri, creiamo le condizioni perché i nostri emigrino. Non soltanto la natalità scende e la speranza di vita aumenta ma l’emigrazione si aggiunge a trasformare l’Italia in un Paese sempre più vecchio e rancoroso.

Si parla di «inverno demografico» dovuto alla forte riduzione del tasso di natalità ma quello che abbiamo visto negli ultimi 10-15 anni va ben oltre e, se dovesse continuare, sarebbe un vero e proprio “suicidio demografico”. Dal 2011 al 2020, gli italiani emigrati sono raddoppiati, passando da circa 80 mila a circa 160 mila, in gran parte giovani, spesso donne, provenienti dal Mezzogiorno e dalle Isole. A fronte di questa vistosa emorragia, i nati, che ancora nel 2008 sfioravano i 600 mila, sono crollati sotto i 400 mila nel 2021, mentre i rimpatri si mantengono molto bassi, a poche decine di migliaia l’anno, in maggioranza anziani (quelli che non scelgono altri Paesi, fiscalmente vantaggiosi).

Tristemente, i giovani che emigrano sono spesso dotati di un livello di istruzione medio-alto; su di essi, l’Italia ha “investito” molto, aumentandone il “capitale umano”, per poi lasciare che esso si svilisca per mancanza di opportunità e di prospettive; e per l’offerta, quando va bene, di “lavoretti”. Il nostro “investimento” nei giovani va quindi a beneficio di altri Paesi, soprattutto europei: un fenomeno parallelo a quello degli investimenti all’estero delle imprese italiane, molto spesso scoraggiate dalle difficoltà a operare in Italia.

Molti giovani che emigrano soffrono di analogo scoraggiamento, non trovando modo di utilizzare in patria le loro capacità e competenze. Per un po’ tornano a trovare le famiglie d’origine a Natale o d’estate, poi, con il tempo, forse neanche più quello e si formano famiglie italiane (o parzialmente italiane) all’estero. Non si tratta però di fenomeni inevitabili. Anzi, sono il risultato, per l’appunto, di politiche miopi e di troppe occasioni perdute. Riforme ispirate alle migliori intenzioni producono scarsi o nulli risultati, in parte per l’impazienza di vederli il giorno dopo che la riforma è approvata; in parte per l’indisponibilità di un governo a riconoscere il buono in ciò che governi precedenti hanno fatto.

Ricordo, quando ero ministro del Lavoro del governo Monti, insieme a Ursula von der Leyen, “collega” al ministero del Lavoro di Berlino, avevamo preparato un progetto di “apprendistato duale” per giovani italiani e tedeschi, con esperienze lavorative gli uni nel paese degli altri, con l’obiettivo di un’Europa più unita, più equilibrata, meno incerta. Dopo un buon inizio, il progetto fu abbandonato; vittima, anche in questo caso, del disinteresse della politica per programmi che non diano immediati risultati elettorali e delle complicazioni burocratiche (la non chiara attribuzione delle competenze tra le regioni e lo stato centrale in materia di lavoro e formazione professionale).

Dai francesi, che forse non hanno titolo per impartirci lezioni, dovremmo però almeno imparare che il welfare dovrebbe dare ai giovani almeno la stessa attenzione data alle pensioni; con interventi sulla scuola, politiche efficaci di accompagnamento al lavoro, di formazione nelle competenze che mancano, nonostante vi sia domanda da parte delle imprese; prestiti e sgravi fiscali per iniziative imprenditoriali.

in “La Stampa” del 13 novembre 2022

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