Antropologia. Coscienza e domanda di senso nella riflessione dei filosofi e dei teologi

COSTANTINO ESPOSITO

Che cosa significa vivere, e vivere “umanamente”? L’interrogativo non sembri troppo impegnativo, come senz’altro sarebbe se lo si intendesse innanzi tutto come un progetto morale o una prospettiva valoriale per l’esistenza. In realtà, alla luce dello sviluppo delle neuroscienze, della paleoantropologia e della biologia evolutiva, la domanda oggi risulta piuttosto di tipo squisitamente conoscitivo. E questo in un duplice senso: in riferimento a ciò che finora riusciamo a sapere a livello scientifico dei comportamenti e delle strutture cognitive degli umani in continuità o discontinuità con le competenze rilevabili in altre specie animali simili o contigue, ma anche in riferimento a quello che di specifico i cosiddetti umani riescono a conoscere di sé, avendo consapevolezza funzionale e orientamento prospettico delle loro azioni.

Questo sembrerebbe spostare definitivamente l’asse dell’interesse per il significato proprio della vita umana, da quello tradizionale della filosofia (e ancor più della teologia) a quello delle scienze naturali, quali la fisica, la chimica e la biologia. E difatti noi possiamo rilevare, tra le tendenze più marcate nel dibattito accademico e scientifico, quella che, sotto un programma genericamente definito come “naturalista”, tenta di praticare una sorta di riduzione epistemologica dell’umano al vivente. Una riduzione metodologica che in alcuni casi sfocia in un vero e proprio riduzionismo ideologico, quello per cui tendenzialmente ciò che per secoli era stato considerato un contrassegno distintivo degli esseri umani, cioè esattamente la razionalità e la capacità di decidere con un certo tasso di libertà delle proprie azioni, sono in realtà funzioni di tipo prettamente naturale (anche se certamente evolute) appartenenti in proprio alla grande sfera dei viventi non umani.

Come spesso accade, tuttavia, le soluzioni apparentemente più semplici (come può essere la riduzione dell’essere umano al vivente) pone più problemi di quanti ne risolva. Come ad esempio il problema di rendere conto in che modo e da cosa nasca quella strana deviazione del funzionamento naturale della vita che è l’emergere della domanda sul suo senso. O in altri termini, se si possa ancora pensare quella specie di “salto” o discontinuità tra il biologico e il culturale che (almeno per esperienza diretta e condivisa, anche se sempre da mettere in questione) connota la nostra posizione di esseri coscienti nel mondo.

Una delle strategie esplicative oggi più praticate consiste nel “retrodatare”, per così dire, alcune componenti della percezione consapevole degli “umani” a comportamenti e funzioni di esseri viventi assai distanti dagli uomini nella scala evolutiva (un esempio di grande successo, anche a livello divulgativo, è stato il libro di Peter-Godfrey-Smith intitolato Altre menti. Il polpo, il mare e le remote origini della coscienza, Adelphi 2018). Ma la questione non si lascia archiviare facilmente o a buon mercato, non a dispetto ma proprio a motivo delle evidenze scientifiche acquisite a livello sperimentale. Non si tratta cioè di contrapporre al monismo riduzionistico un fondamentalismo antropocentrico e dualista, ma di non tralasciare una domanda essenziale proprio per cogliere la continuità o l’analogia funzionale tra gli umani e gli altri viventi: che cosa dev’essere accaduto, se i viventi umani, partendo non solo da una loro esperienza consapevole, ma dalla coscienza riflessa di questa consapevolezza (o auto-coscienza) possono anche solo ipotizzare e cercare tale esperienza in esseri vicino o anche lontani da sé, considerandoli consapevoli ma non necessariamente auto-coscienti?

Il convegno Umani e altri viventi che si è svolto dal 22 al 24 settembre a Roma — il settantasettesimo promosso dal Centro Studi Filosofici di Gallarate — ha provato a gettare luce esattamente sui problemi che rimangono aperti in questa tendenza scientificamente e filosoficamente dominante oggi: quella di non pensare più il vivente a partire dall’umano (come si è fatto per secoli), ma viceversa di pensare l’umano a partire dal vivente. Ma appunto per ritrovare nel vivente quella che uno dei relatori (Étienne Bimbenet dell’Università di Bordeaux) ha chiamato una vera e propria «eccentricità del vivente umano», così come appare nell’esperienza e di cui siamo chiamati oggi più che mai a fornire una descrizione fenomenologica.

Alcune delle evidenze scientifiche con cui oggi il discorso filosofico sulla specificità dell’umano deve senz’altro confrontarsi, sono state affrontate da Michael Tomasello, il noto psicologo e antropologo evolutivo della Duke University e del Max Planck Institute di Lipsia in riferimento ad alcuni famosi esperimenti con gli scimpanzé, da cui emergerebbe che l’esperienza del mondo di questi ultimi è “intenzionale” sostanzialmente allo stesso modo di quella degli esseri umani, mentre è “razionale” solo in alcuni modi e non in altri, infine (ecco l’eccedenza o la discontinuità) non è atto capace di “normatività” a livello sociale. A livello più specificamente filosofico abbiamo a che fare qui con il problema della “antropogenesi” e con la possibilità di ricostruire una vera e propria storia del vivente umano, mettendo in gioco soprattutto alcuni elementi decisivi quali la tecnica, il linguaggio e la memoria come soglie in cui si articola la continuità e la discontinuità all’interno del vivente (ne ha parlato Carmine Di Martino dell’Università di Milano).

Il convegno ha messo a fuoco anche il ruolo che la riflessione sugli animali ha svolto e svolge nella teologia cristiana (Luisella Battaglia dell’Università di Genova), e di fare il punto sulla possibile elaborazione etica di queste prospettive sul vivente; oggetto di una serrata tavola rotonda coordinata dal presidente del Centro Franco Totaro, dalle ragioni di un’etica animale (Barbara De Mori, Università di Padova) a quelle di un’etica delle piante (Guido Giglioni, Macerata), fino alla presenza dell’impersonale nel piano della creazione (Iolanda Poma, Vercelli). Nella prospettiva per cui (come suona il tema del teologo Simone Morandini di Padova) nel vivente “tutto è connesso”, di modo che l’etica – anche alla luce del lavoro delle scienze – non può che essere quella di una ecologia integrale.

in L’Osservatore Romano, 26 settembre 2022

Contrassegnato da tag , , ,