Nawal, l’angelo che prova a salvare i migranti. “Nel Mediterraneo un secondo Olocausto”

FILIPPO FEMIA

Nel nome porta incisa la sua missione: Nawal, in arabo, significa dono. Questa italo-marocchina di 35 anni ha deciso di dedicare la sua vita agli ultimi fra gli ultimi: i migranti. Un dono, il suo, che ogni giorno fa a chi abbandona tutto per inseguire una nuova vita a bordo di un barcone fatiscente.

Nell’epoca dell’indifferenza collettiva ha scelto di non voltarsi dall’altra parte. Da quando aveva 14 anni, Nawal Soufi ha aiutato decine di migliaia di migranti, denunciando gli abusi che subiscono lungo le rotte che portano in Europa. Provare a raggiungerla al telefono è un’impresa: passa gran parte del suo tempo, spesso anche notti insonni, a raccogliere informazioni di naufragi e barconi in difficoltà in modo da poter allertare le guardie costiere europee e nordafricane e permettere i soccorsi in mare. «Non mi occupo di migranti, io stessa sono una migrante – ama ripetere –. In una terra, la Sicilia, di migranti».

In Italia è arrivata quando aveva poco meno di un mese. Il valore di solidarietà e accoglienza l’ha ereditato dai genitori, arrivati a Catania dal Marocco. «Quando c’erano naufragi sulle coste siciliane loro erano i primi ad aiutare per fare riavere alle famiglie del Nord Africa i corpi di chi non ce l’aveva fatta», racconta. Studentessa di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha fatto la giornalista e la mediatrice culturale, lavorando anche come interprete nei tribunali e in carcere. Ma è nei centri per migranti dell’isola che ha scoperto la sua vocazione: «Parlando italiano e quasi tutti i dialetti arabi, traducevo i bisogni di chi era appena sbarcato e non aveva nessuno a cui rivolgersi. Poi li aiutavo con le questioni burocratiche per la richiesta d’asilo». Per tutti diventa “l’angelo dei migranti”. Presto il suo numero di cellulare passa di mano in mano, in un tam tam virtuale, tra i disperati in fuga da guerre, carestie e povertà. La sua vita cambia un giorno del 2013, l’anno in cui il Mediterraneo si trasforma in un immenso cimitero di acqua. «Mi arrivò una telefonata dal mare, non mi era mai accaduto: erano migranti che cercavano soccorso – ricorda –. Chiamai subito la Guardia costiera e da quel giorno non ho più smesso».

È stata lei a raccontare su Facebook la tragedia di Loujin, la bimba siriana di quattro anni morta di sete su un barchino alla deriva al largo delle coste maltesi. Era partito dal Libano diretto in Italia, da giorni a bordo non c’erano né cibo né acqua: «Ho allertato le autorità di La Valletta, che però non hanno inviato aiuti. Nessuna imbarcazione di passaggio si è fermata per prestare soccorso – spiega –. Nel Mediterraneo stiamo vivendo un secondo Olocausto, ma tutti distolgono lo sguardo».

Su Facebook la seguono oltre 70 mila persone, le sue pubblicazioni sono un mix tra un diario intimo e un luogo di denuncia. Ma per le sue battaglie, Nawal ci mette il corpo. Letteralmente. Dai campi profughi di Lesbo alle foreste al confine tra Polonia e Bielorussia, ha accompagnato i migranti nelle loro disperate traversate. Ha camminato nel gelo dell’inverno balcanico al fianco di quelle persone, poi respinte alle porte dell’Europa per testimoniare gli abusi che subiscono: «Quando li guardo negli occhi non riesco a non provare vergogna – confessa –. Un giorno dovremo spiegare ai nostri figli perché siamo rimasti in silenzio quando migliaia di esseri umani stavano morendo cercando di raggiungere un posto che ritengono sicuro». Per aiutare i migranti raccoglie fondi che poi usa per comprare loro cibo, scarpe o pagare una visita medica o una ricarica telefonica.

Il suo è un urlo di dolore e di denuncia, che vuole risvegliare le coscienze dell’Europa e dei suoi cittadini: «Abbiamo le mani sporche di sangue, non ce lo dimentichiamo – si sfoga –. Viviamo in quella parte di mondo che deve assumersi le responsabilità per tutte le stragi di migranti che ogni giorno si verificano nel silenzio più totale». A chi le chiede chi glielo fa fare, di sacrificare la sua vita in questo modo, risponde con un sorriso: «È il cuore che mi paga. Gli sguardi dei bambini che riescono a mettere piede in Europa sono una ricompensa incommensurabile: in quei momenti mi sono sentita una madre».

in “La Stampa” del 13 settembre 2022

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