La lunga marcia dell’umanità. Così le migrazioni spiegano chi siamo diventati

Stefano Allievi, Guido Barbujani e Silvia Ferrara

L’umanità è in marcia. Secondo il World Migration Report 2022 dell’Onu, nel 2020 281 milioni di persone vivevano in un Paese diverso da quello in cui sono nate. Non esistono dati certi sulle migrazioni interne, ma sempre secondo l’Onu non è lontana dalla realtà una cifra di 740 milioni di persone. In totale, significa oltre 1 miliardo di persone che si è spostato per vivere altrove rispetto al luogo in cui è nato. Vuol dire un abitante della terra su otto.

Non è un fenomeno nuovo, anche se ha assunto dimensioni nuove negli ultimi decenni. In realtà, l’umanità è in marcia da sempre. Lo studio dei fossili, dei reperti archeologici e del Dna concordano: siamo una specie irrequieta. Veniamo dall’Africa, su questo non ci sono dubbi, e creature simili a noi (prima gli australopitechi; poi Homo erectus, Neanderthal e altri), e infine proprio come noi, Homo sapiens, sono andate in giro per sei milioni di anni. Per sei milioni di anni, spostarsi è stata una necessità: Homo sapiens e i suoi predecessori vivevano di caccia e raccolta, e perciò erano nomadi.

Solo nell’ultima, breve fase della nostra storia, da 10mila anni in qua, abbiamo cambiato stile di vita. Nella mezzaluna fertile del Vicino Oriente, in Cina nella regione fra il Fiume Giallo e il Fiume Azzurro, e poi in America Centrale e nelle Ande, abbiamo imparato a coltivare i campi e ad allevare animali: siamo diventati, un po’ alla volta, sedentari. Abbiamo fondato villaggi, e alcuni sono cresciuti, diventando città; non è un caso se città e civiltà hanno la stessa etimologia. Anche così, però, abbiamo continuato a muoverci da un posto all’altro: per commerciare, per farci la guerra o per scappare dalla guerra, o semplicemente per andare a vedere cosa c’è un po’ più in là.

Lo studio del Dna, nelle popolazioni attuali, nei reperti fossili, e anche nelle piante e negli animali che abbiamo addomesticato, ci racconta una storia di migrazioni, che ha cambiato non solo noi, ma l’ambiente in cui viviamo e le cose che mangiamo: con conseguenze, come sappiamo, sia positive sia negative. Diecimila anni fa i primi agricoltori e allevatori hanno cominciato a incrociare le loro piante e i loro animali, realizzando nuove varietà che possiamo considerare come i primi organismi geneticamente modificati. Queste nuove varietà erano più produttive, resistevano meglio al freddo o alla siccità, permettevano di sfamare popolazioni più vaste.

Da diecimila anni in qua, la popolazione umana è in crescita grazie alle tecnologie di produzione del cibo, che l’umanità nomade non conosceva. Ma perché queste tecnologie si diffondessero su tutto il pianeta dalle regioni dove le avevamo inventate ci sono volute altre migrazioni: altre lunghe marce, che oggi archeologi e genetisti sanno riconoscere nei loro reperti.

Le storie di migrazioni sono anche storie di riposi, pause, e di soste. In queste tregue dalla lunga marcia, ci siamo fermati e abbiamo iniziato a lasciare tracce di noi. Ci sono luoghi remoti e misteriosi dove gli esseri umani hanno iniziato a immaginare, dove hanno inventato figure, simboli, parole. Dove il guizzo d’ingegno, l’idea, il gesto creativo attraverso il quale ciò che prima era solo immaginato è diventato tangibile e concreto.

Dalle impronte nella grotta di Pech-Merle in Francia o quelle nell’isola di Sulawesi in Indonesia, a quelle di Yenikap? in Turchia, dalle giraffe incise nel deserto del Sahara ai petroglifi giganti delle Hawaii, dai templi di Göbekli Tepe in Turchia ai segni enigmatici nelle grotte del Salento, è possibile ripercorrere uno straordinario cammino di salti verso l’astrazione.

Così scopriamo la nostra antichissima storia di manipolatori della natura, impastatori della sua materia grezza, orditori di trame inaspettate, tessitori di un mondo di fiction. Incontriamo disegni di uomini e donne e di animali estinti, figure astratte senza interpretazione, il senso di spazio condiviso. Come e perché sono nati? Come nasce un simbolo, un’icona, un segno? Chi lo crea? E chi lo comprende? Nella nostra lunga e continua marcia troviamo la nostra innata capacità di plasmare la realtà per dar vita a qualcosa di diverso da quello che è, lasciando tracce vive del nostro passaggio.

Oggi la nostra capacità di immaginare il mondo continua a subire potenti accelerazioni, e la nostra mobilità è ripresa, in molte forme che la parola migrazioni contiene a fatica. Ragionare sulle nuove forme di mobilità – delle merci, del denaro, delle informazioni, e naturalmente, con molti ostacoli in più, e forti diseguaglianze, di uomini e donne – può aiutarci a comprendere meglio anche le crescenti migrazioni, in tutte le direzioni, in ingresso e in uscita, collocandole all’interno di un quadro interpretativo diverso. E, soprattutto, può aiutarci a capire le conseguenze della mobilità umana sulle nostre società, sempre più culturalmente, etnicamente, religiosamente plurali: alla ricerca di un nuovo e diverso patto sociale, passando attraverso conflitti e forme inedite di riconoscimento reciproco.

in “La Stampa” del 9 settembre 2022

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