Il volto tragico della scoperta e colonizzazione dell’America Centro-Meridionale

BARTOLOMÉ DE LAS CASAS

Nel 1502 Bartolomé de Las Casas sbarcò, con la speranza di farvi fortuna, in quelle terre dell’America Centrale che allora venivano chiamate Indie. Nel 1513 divenne prete, il primo a essere ordinato nel Nuovo Mondo e, successivamente, entrò nell’ordine dei domenicani. E nella Pasqua del 1514 tenne ai coloni di Cuba un sermone profetico contro la brutale colonizzazione in atto. Egli scriverà di essere stato spinto a pronunciare quelle parole di fuoco contro i suoi connazionali da alcuni versetti del capitolo 4 dell’Ecclesiaste, laddove si legge:” Il PANE DEL POVERO E’ LA SUA VITA: CHI GLIELO TOGLIE E’ UN ASSASSINO”.

Da allora inizierà una battaglia in favore degli indiani. Nel 1542 scriverà una Brevissima relazione della distruzione delle Indie, di cui abbiamo antologizzato le pagine iniziali; in essa prende posizione contro gli orrendi atti di barbarie perpetrati dagli europei, raccontandoci così l’altra faccia della conquista dell’America Latina.

Furono scoperte, le Indie, nell’anno 1492: Cominciarono fin dall’anno seguente ad andare a popolarle dei cristiani spagnoli, e continuarono a farlo per tutti questi quarantanove anni, in grande numero. La prima terra ove essi penetrarono al fine di stabilirvisi fu la grande e felicissima isola Spagnola che ha seicento leghe di litorale. V’è accosto ad essa un’infinità di altre isole assai grandi, sparse tutto intorno. Noi le abbiamo viste quando erano tutte popolate di nativi, degli indiani di quelle terre, più numerosi che ogni altra contrada del mondo. La Terra Ferma, che dista da quell’isola, nel punto in cui le è maggiormente vicina, circa duecentocinquanta leghe, ha più di diecimila leghe di costa marina già scoperte, e ogni giorno se ne scoprono ancora. I litorali noti fin dal 1451 son tanto pieni di gente che paiono un alveare: si direbbe che Dio vi abbia voluto profondere, come una marea, la più gran parte dell’umano lignaggio.

Tutte queste universe e infinite genti, di ogni genere, Dio le ha create semplici, senza malvagità né doppiezze, obbedientissime e fedelissime ai loro signori naturali e ai cristiani che servono; e più di ogni altre al mondo umili, pazienti, pacifiche e tranquille, aliene da risse e da baruffe, da liti e da maledicenze, senza rancori, odi né desideri di vendetta. E sono di costituzione tanto gracile, debole e delicata, che sopportano difficilmente i lavori faticosi e facilmente muoiono di qualsiasi malattia: persino quelli di condizione contadina sono di salute più delicata dei figli di principi e signori allevati tra noi in mezzo agli agi e alle comodità della vita.

E’ poi gente poverissima, che assai poco possiede e ancor meno desidera possedere beni temporali: per questo non sono superbi, né avidi o ambiziosi. Il loro nutrimento è tale che quello dei Santi Padri nel deserto non dovette essere più scarso, né più ingrato né povero. Vanno in generale nudi, coperte soltanto le lor parti vergognose; solo taluni portano sulle spalle un panno di cotone quadrato, di un braccio e mezzo o due per ogni lato. Hanno per letti delle stuoie, o al più dormono su certe reti appese, che nella lingua dell’isola Spagnola si chiamano amache. Sono d’intendimento chiaro, libero e vivace, capaci di apprendere docilmente ogni buon insegnamento. Hanno dunque grandissima attitudine a ricevere la nostra santa fede cattolica e ad acquisire costumi virtuosi: nessun popolo creato da Dio nel mondo ha meno impedimenti a percorrere questa via.

Non appena cominciano ad avere notizia delle cose della fede si fanno così importuni per saperne di più e per praticare i sacramenti della chiesa e il culto divino, che a dire il vero occorre che i religiosi, per sopportarli, sian stati segnatamente provvisti da Dio del dono della pazienza. Infine, in tanti anni ho sentito dire più volte da vari spagnoli, laici, i quali non potevano negare la bontà che in quelle genti si manifesta:” Veramente questo sarebbe stato il popolo più felice del mondo, se solo avesse conosciuto Dio”.

Tra questi agnelli mansueti, dotati dal loro Creatore e Fattore di tutte le qualità di cui sono andato parlando entrarono gli spagnoli, non appena ebbero notizia della loro esistenza, come lupi, come tigri e leoni crudelissimi che fossero stati tenuti affamati per diversi giorni. Altro non han fatto da quarant’anni a questa parte ( e oggi ancora continuano a fare) che straziarli, ammazzarli, tribolarli, affliggerli, tormentarli e distruggerli con crudeltà straordinarie, inusitate e sempre nuove, di cui non si è mai saputo, né udito né letto prima.

Alcune di queste atrocità riferirò più avanti: per ora basti dire che sono state tali che dei tre milioni di anime dell’isola Spagnola, che noi abbiamo veduto, non ne restano più di duecento. E l’isola di Cuba, estesa quasi quanto il tratto che separa Valladolid da Roma, è oggi interamente spopolata. Quanto a San Juan e alla Giamaica, grandi e un tempo felici assai, incantevoli, son tutte e due devastate. Le isole Lucaie, situate poco tratto a nord della Spagnola e di Cuba, insieme a quelle che chiamavano dei Giganti e ad altre di varia estensione, sono più di sessanta. La peggiore di tutte è più fertile e ridente dei giardini del re a Siviglia: sono le terre più salutevoli al mondo. V’erano in esse oltre cinquecentomila indiani, e oggi non vi si trova più creatura vivente. Li hanno fatti perire tutti, fino all’ultimo, traendoli in servitù all’isola Spagnola perché vi prendessero il posto dei nativi, che stavan loro morendo di stenti a uno a uno.

Dopo tale vendemmia una nave andò attorno per tre anni a cercare gente in quei mari, perché un buon cristiano s’era mosso a pietà di quanti vi si potessero ancora trovare, e voleva convertirli e guadagnarli a Cristo. Non furono rinvenuti che undici indiani: li ho visti io. Più di trenta altre isole nei dintorni di Sn Juan sono spopolate e perdute per la stessa ragione. Tutte queste isole avranno insieme più di duemila leghe di costa, e sono ora interamente abbandonate e deserte.

Circa la grande Terra Ferma abbiamo sicura notizia che gli spagnoli con le loro crudeltà e le loro opere nefande, hanno spopolato e devastato tutte quelle spiagge un giorno affollate di uomini razionali. V’eran colà oltre dieci regni più grandi dell’intera Spagna, ivi compresi il Portogallo e l’Aragona, ed estendentisi per un tratto due volte maggiore della distanza tra Siviglia e Gerusalemme, che sono più di duemila leghe: oggi è tutto nella più completa desolazione.

Più di dodici milioni di anime, uomini donne e bambini, son morti nel corso di questi quarant’anni per la tirannia e le opere infernali dei cristiani, ingiustamente e iniquamente. La valutazione è cortissima e veridica; ma in realtà io credo, e non penso di ingannarmi, che ne sian periti più di quindici milioni.

Due sono state, generalmente discorrendo, le principali maniere con cui quelli che si son recati laggiù e che si chiamano cristiani hanno estirpato e spazzato dalla faccia della terra tante infelici nazioni.

In primo luogo vi sono state le guerre ingiuste, crudeli, sanguinose e tiranniche. Hanno ammazzato quanti potevano bramare la libertà, sospirarla o anche solo pensarvi, oppure concepire il disegno di  sottrarsi ai patimenti che pativano, vale a dire i signori del luogo e gli uomini: ché da sempre le guerre non lasciano in vita che i giovani e le donne.

 Poi hanno continuato a uccidere opprimendo i superstiti con la più dura, la più orribile e acerba servitù cui uomini e bestie sian mai stati costretti.

A queste due forme di tirannia infernale si riducono a guisa di compendio, subordinate quasi a un unico genere, tutte le altre differenti maniere di distruggere quelle genti, che variano all’infinito.

Non da altro mossi i cristiani hanno ammazzato e distrutto tante e tali anime, in numero incalcolabile, non da altro guidati che dalla sfrenata brama dell’oro, dal desiderio di empirsi di ricchezze e di elevarsi ad alte posizioni, affatto sproporzionate alla qualità delle loro persone.

Sospinti da una cupidigia e da un’ambizione tali da non trovar confronto sulla faccia della terra, ritrovandosi in contrade così prospere e ricche, abitate da genti tanto umili, tanto pazienti e facili da soggiogare, essi non hanno avuto alcun rispetto, considerazione o stima veruna per gli indiani.

Quanto sto per dire corrisponde a verità; ché ne sono stato testimone e l’ho visto per tutti quegli anni: li han considerati non dico alla stregua delle bestie (piacesse a Dio che come tali li avessero trattati e rispettati), ma dello sterco che si trova in mezzo alle strade, e ancora peggio.

E’ così che hanno avuto cura delle loro vite e delle loro anime, e per questa ragione creature innumerevoli sono morte senza fede e senza sacramenti. Ed è ancora verità notoria e accertata, riconosciuta e ammessa da tutti, perfino dai tiranni e dagli assassini, che mai, in tutta la vastità delle Indie, gli indiani han recato il minor danno ai cristiani. Li ritenevano anzi discesi dal cielo, finché non han cominciato e poi continuato a subirne, un giorno dopo l’altro, ogni sorta di ribalderie, di rapine, di assassini, di vessazioni e di violenze.

DELL’ISOLA SPAGNOLA

L’isola Spagnola, come abbiamo detto, fu la prima ove i cristiani approdarono e diedero inizio alle stragi e alle devastazioni di quelle genti; e la prima a essere distrutta e spopolata.

Cominciarono col prendere agli indiani le donne e i figlioli per farsi servire e per farne malo uso, e a mangiare i cibi che questi si procuravano con il sudore e le fatiche loro.

Non si contentavano di ciò che essi offrivano di buon grado, ciascuno secondo le proprie possibilità: che sono modeste, poiché d’ordinario gli indiani non sono soliti possedere più di quanto fa loro bisogno e che possono procurarsi con poco lavoro. Del resto ciò che basta in quelle terre per un mese a tre famiglie di dieci persone ciascuna, un cristiano se lo mangia e lo sciupa in un sol giorno.

In seguito a tante altre prepotenze, violenze e vessazioni, gli indiani cominciarono a capire che quegli uomini non dovevano essere venuti dal cielo.

E alcuni presero a nascondere le loro provviste, altri le mogli con i figli, e altri ancora fuggivano nelle foreste per stare lontani da quella gente dal tratto così acerbo e terribile.

I cristiani li prendevano a ceffate e a pugnate, e li bastonavano fino a che non confessavano dove erano nascosti i signori dei villaggi: e così li scovavano.

La loro protervia e impudenza arrivarono al punto che un capitano violentò la stessa moglie del più grande di quei signori, sovrano dell’intera isola. Fu allora che gli indiani cominciarono a cercare il modo di cacciare i cristiani dalle loro terre e si misero in armi. Ma le armi loro sono estremamente fragili, di poca offesa, scarsamente resistenti e ancor meno atte alla difesa: tutte le lor guerre son poco più dei giochi di canne in uso tra noi, se non addirittura dei trastulli dei bambini.

Coi loro cavalli, le loro spade e le loro lance i cristiani si diedero allora a compiere contro gli indiani tali massacri e tali crudeltà ch’essi neanche avrebbero potuto immaginare.

Entravano nei villaggi e facevano a pezzi tutti, senza risparmiare vecchi né bambini e sventrarono le donne, pregne o puerpere che fossero: era come se prendessero d’assalto agnelli rifugiati nei loro ovili. Facevano scommesse a chi sarebbe riuscito a fendere un uomo in due con una sola sciabolata, a tagliargli la testa con un colpo di picca oppure a sviscerarlo.

Strappavano gli infanti dai petti delle madri, e tenendoli per i piedi ne fracassavano le teste contro le rocce. Altri se li gettavano dietro le spalle precipitandoli nei fiumi con grandi risate e motteggi, e stavano poi a osservare la creatura nell’acqua dicendo: “ Corpo di mille diavoli, guarda come scodinzola”.

Altri li infilzavano con la spada insieme alle madri e a quanti si trovavano innanzi, come in uno spiedo.

Costruivano lunghe forche, alte in guisa che le punte dei piedi dei suppliziati sfiorassero appena la terra, e di tredici in tredici, in onore e reverenza del nostro Redentore e dei dodici apostoli, mettendovi sotto legna e fuoco, li ardevano vivi.

Ad altri legavano o appendevano a tutto il corpo della paglia secca e vi appiccavano fuoco: e in questa maniera li facevano morire.

Ad altri ancora, e a tutti quelli che prendevano vivi, tagliavano le mani lasciandole loro spenzolanti dai moncherini, e dicevano:” Andate a portar lettere”; come a dire che andassero a recar notizie alle genti che si erano rifugiate nelle foreste.

I nobili e i signori li facevano quasi tutti perire alla stessa maniera. Li legavano su graticole fatte di pertiche poggiate su quattro forcelle e accendevano sotto tutto il lor corpo un fuoco lento perché, gettando urla disperate in mezzo a quei tormenti, rendessero l’anima a poco a poco.

Una volta che tenevano a bruciare a quel modo quattro o cinque signori d’importanza( e se ben ricordo v’erano nei pressi altre due o tre paia di graticole sulle quali ardevano altri uomini), siccome andavano gettando altissime grida, il capitano, o per compassione o perché gli disturbavano il sonno, comandò che venissero strangolati. Ma il bargello, il quale era più malvagio del carnefice che li abbrustoliva ( e io so come si chiamava: ho persino conosciuto certi suoi parenti a Siviglia), non volle farlo; mise, anzi, di sua mano, dei bastoni nelle loro bocche per soffocarne gli urli, e poi attizzò il fuoco finché morirono come lui voleva, bruciati lentamente.

Le cose che vengo raccontando, e infinite altre, le ho viste coi miei occhi.

Tutti quelli che riuscivano a fuggire si rifugiavano nelle foreste o si inerpicavano sulle montagne a cercar scampo da uomini tanto inumani e spietati, da belve così sanguinarie, da questi distruttori e nemici mortali dell’umano lignaggio.

Furono allora allevati e ammaestrati certi levrieri, cani ferocissimi che appena vedevano un indiano lo facevano fuori in un ave: gli balzavano addosso e lo divoravano come se fosse un cinghiale. Con questi cani si son compiute grandi stragi e carneficine.

E poiché alcune volte, poche invero e di rado, accadeva che gli indiani, con giusta ragione e santa giustizia uccidessero dei cristiani, questi decretarono che per ognuno dei loro ammazzato si mettessero a morte cento indiani.

[ B. De Las Casas, Brevissima relazione della distruzione delle Indie, Mondatori, Milano, 1987]

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