Come contrastare fake news e manipolazioni e costruire un sapere inclusivo

LAURA NOTA e ROBERTO REALE, intervista

Laura Nota e Roberto Reale, Voi avete curato l’edizione del libro “La passione per la verità. Come contrastare fake news e manipolazioni e costruire un sapere inclusivo“, edito da FrancoAngeli: quale importanza riveste, per l’ecosistema informazione, la cura per la verità?

Siamo consapevoli che questo secolo, a livello planetario, sta facendo registrare una disponibilità di mezzi, di beni e risorse di cui l’umanità non aveva in passato mai goduto; allo stesso tempo però è sotto i nostri occhi il fatto che viviamo in un contesto che si presenta all’insegna dell’incertezza, del cambiamento, della disuguaglianza. Ci si trova di fronte a povertà crescenti, tassi elevati di emigrazione e immigrazione, livelli consistenti di eterogeneità sociale, accentuata competitività e precarietà, che si presentano come fenomeni interconnessi e interagenti, che hanno impatti a carico del benessere di tante persone, gruppi e comunità.

Abbiamo a che fare con una realtà complessa imperniata su questioni di macrosistema, quali la cultura di riferimento, l’ideologia imperante e le sue strategie manipolative, la politica vigente e i condizionamenti che esercita, i presupposti socio-economici, il modo di concettualizzare la vita umana e la vulnerabilità, di mesosistema, relativi alle zone di vita più prossimali, le città, i paesi, la comunità e le organizzazioni dove si attua l’esistenza imprenditoriale e scolastica, si sperimentano supporti e servizi, dove agiscono i sistemi produttivi, pubblicitari, i processi comunicativi e informativi, e di microsistema, l’individuo e la sua famiglia, con i loro credo, le loro capacità, le loro paure

Le fake news sono espressione di questo sistema complesso, e se da un lato ben sappiamo che le menzogne accompagnano fin dagli albori la vita umana, dall’altro desideriamo ragionare su quanto sono di fatto espressione di derive ideologiche, di fattori socio-economici controversi, di condizioni esasperate, capaci di creare un terreno facilitante una manipolazione sociale di massa, per generare guadagni, consenso, influenzare scelte e comportamenti, esacerbare gli scontri politici, a vantaggio di pochi e a danno di moltissimi.

Le fake news sono, a nostro avviso, la punta di un iceberg, una delle diverse forme con le quali si cerca di agire per il proprio tornaconto nel disprezzo di relazioni umane improntate ad umanità, equità, giustizia, con l’intento di creare ulteriore vulnerabilità e problemi, favorire discriminazioni, disuguaglianze e arrivare a minare la democrazia stessa.

Abbiamo bisogno di verità ma per favorirla ed esercitarla abbiamo prima bisogno di capire e conoscere a fondo questo fenomeno. Il nostro lavoro si prefigge così e in primo luogo di situare il tema in un più ampio quadro socio-economico che si associa al degrado sociale, piega le professioni deputate alla diffusione delle informazioni verso la manipolazione, amplifica gli effetti della distorsione, in un contesto che non rinnega la menzogna, l’avidità, l’individualismo sfrenato. Le riflessioni e gli approfondimenti ci portano a dare enfasi all’idea che per fronteggiare le fake news è necessario fronteggiare queste minacce nel loro complesso, unendo le forze migliori della nostra società, tutte le professioni e le discipline che desiderano riscattarsi e agire per nuove forme di umanizzazione secondo una visione inclusiva e sostenibile della realtà.

Quanto sono diffusi nel nostro tempo il disordine informativo e linguistico?

La prima cosa che dovremmo comprendere, anche se è un concetto tutt’altro che facile da accettare, è che l’epoca in cui siamo immersi è quella del “grande disordine informativo”, fenomeno di cui abbiamo percezione ma non piena consapevolezza. Prima di misurarci con la questione fake news dobbiamo capire la “forma di vita” in cui noi tutti, senza eccezioni, siamo calati, “intuire” che agiamo all’interno di un ecosistema complesso e frammentato. Il nostro presente è contrassegnato da assillanti progressi tecnologici, da problemi sociali crescenti, fratture generazionali e non possediamo facili formule vincenti per padroneggiare gli eventi. Se restassimo in superficie potremmo anche dividerci fra chi attribuisce la responsabilità dei nostri problemi a Internet, chi agli algoritmi dei social, chi alla televisione, alla scuola, al giornalismo, all’ignoranza diffusa, al fatto che si leggano pochi libri. Ma sono tutte scorciatoie, quella che ci serve e una teoria più raffinata e di sicuro dinamica, dobbiamo ragionare pensando come chi vive in un ambiente inquinato e sente la necessità di una nuova risposta ecologica che in questo caso riguarda l’informazione. Chi non è convinto rifletta seriamente su vicenda coronavirus e parta da lì.

Per poter analizzare con efficacia e non solo in modo retorico il problema dobbiamo comprendere che alle “colpe dei social” non si contrappongono l’innocenza dei media, del mercato, del potere, dei grandi interessi. Cosa determina l’odierno “labirinto”? Insieme alla moltiplicazione delle fonti, in questa “biblioteca di Babele” un ruolo fondamentale ce l’hanno il tempo sempre più limitato a nostra disposizione e la conseguente dispersione della nostra attenzione. Siamo diventati facili prede per algoritmi il cui scopo ultimo non è farci comprendere gli eventi, ma generare piuttosto traffico nella rete, moltiplicare le reazioni emotive, immediate, isteriche. Gli stessi fautori dell’uso di “disordine informativo” (molto più utile, per dare un contesto al moltiplicarsi del falso, rispetto al semplicistico fake news), tendono poi a distinguere fra “disinformazione”, deliberatamente voluta, “misinformazione”, involontaria diffusione di notizie false, e “mala informazione”, fatti accaduti ma strumentalizzati omettendo particolari. È in questo contesto che sono proliferate le notizie false, in un ambiente nel quale il senso di comunità era già compromesso dal moltiplicarsi di piattaforme di distribuzione e ricezione dei messaggi alternative, in frenetica competizione, diversissime fra loro per meccanismi di fruizione. Un “mondo della vita” dove la ricomposizione di una visione comune pare quasi impossibile persino sul piano linguistico, del senso stesso che ciascuno di noi può dare al significato delle parole.

Quali conseguenze produce la disintermediazione offerta dalla rete?

Partiamo da una considerazione. Quella della cosiddetta disintermediazione è una “storia di successo”. Chi di noi non ha vissuto come liberatoria la possibilità di farsi, con Internet, da solo un biglietto aereo? Avevamo il “mondo finalmente a portata di mano”. E cosi strano che, sfruttando questo nuovo approccio alle fonti, qualcuno abbia finito con l’illudersi di potersi curare da sé? È come una palla di neve che rotola, può diventare valanga. Spostiamo allora lo sguardo sulle giornaliste e i giornalisti che si sono ritrovati nel mezzo di questi sommovimenti. Cosa sono se non degli intermediari tra i fatti e la cittadinanza diventati (almeno in apparenza) superflui? Il punto è che la slavina è scesa a valle a velocità crescente, travolgendo tutto, a cominciare dagli strumenti stessi del comunicare. C’è dunque un’ambivalenza che va colta. Prendiamo il nostro rapporto con gli strumenti tecnologici, quanto li conosciamo veramente? Ci affascinano perché contengono la promessa di migliorare la vita umana e potenziarla, il problema è che nascondono delle minacce. È la stessa logica che ispira la nostra dimensione di clienti/consumatori. Come ha spiegato magistralmente Zygmunt Bauman il consumo è un atto ambivalente. Esprime il dominio di chi ci impone l’acquisto di merci che non ci servono ma ci appare nel contempo soggettivamente come un gesto libero, una forma di realizzazione personale, tipica della modernità. Per questa ragione oggi abbiamo bisogno di dotarci di una visione dialettica, mobile. Conviviamo con continui “ribaltamenti di senso”. Pensiamo al ruolo stesso di Internet, dell’essere sempre connessi in una rete piena di informazioni, in un mondo digitale. Soltanto 20 anni fa vedevamo in ciò una favolosa opportunità e le persone che per prime frequentavano questo ambiente, sentivano forte l’emozione di chi si avvicinava a uno strumento straordinario, a una biblioteca universale sempre a portata di mano, che avrebbe promosso una diffusione del sapere senza precedenti. Cosa rimane oggi di tutto questo? Restano Wikipedia e altri luoghi dove si esprime una umanità cooperativa ma contemporaneamente dilaga, sui social e non solo, una marea di messaggi che ci riportano alle superstizioni della pseudoscienza. Se volessimo fare un ragionamento serio sul perché nella nostra epoca siano cosi condivise le teorie del complotto e della cospirazione, dovremmo partire da qui, e allargare poi lo sguardo parallelamente alle logiche para narrative che si sono progressivamente affermate negli ultimi decenni in primo luogo in televisione. Su un punto dobbiamo chiarirci le idee, c’è anche qui un’ambivalenza da cogliere. Lo spirito critico resta un valore fondamentale come lo è il pensare con la propria testa. Ma tutt’altra cosa è affidarsi a credenze, alle speculazioni più o meno provocatorie della società dello spettacolo. Occorre stare in guardia verso chi vuole distruggere ogni sapere degno di fiducia, perché l’esperienza ci dice che sulle macerie di ogni regola condivisa a approfittare della “devastazione” è il demagogo di turno, l’autocrate, il capo che alla fine rimane da solo a fare sintesi col suo “fidatevi di me, decido io per tutti”.

In che modo le nostre necessita e i nostri processi cognitivi ci rendono facili prede delle fake news?

Questo fenomeno trova le sue ragioni di esistere anche nelle nostre necessità umane e nelle modalità con le quali elaboriamo le informazioni. Desiriamo così approfondire da un lato i bisogni sociali e psicologici della persona, quali ad esempio i bisogni di appartenenza e realizzazione, e, dall’altro, i processi di ragionamento, le modalità che sono utilizzate dal nostro sistema cognitivo per elaborare le informazioni, quali fattori ben sfruttati dai ‘costruttori’ di fake news. Abbiamo sicuramente a che fare con scelte e processi operativi che sfruttano il nostro essere umani, le nostre necessità sociali e i nostri modi di ragionare. L’amplificazione digitale punta ad ottenere il massimo rendimento da tutto questo raggiungendo molte persone contemporaneamente grazie a programmi informatici associati a un profilo digitale e specifiche metodologie multimediali, video, immagini, in grado di facilitarne la diffusione e la fruizione sugli stessi social.

Tutto ciò a sua volta è in grado di generare una compromissione della capacità di riflessione, della ragionevolezza, che porta ad un’accettazione incondizionata di notizie presentate in modo distorto, che orientano esplicitamente allo sviluppo di pregiudizi e cercano di generare odio nel lettore. Dobbiamo imparare a considerare con attenzione che la dimensione emotiva, le sensazioni di paura, tristezza, impotenza e rabbia, che vengono suscitate riescono ad impattare le persone e i gruppi sociali con una velocità e un coinvolgimento mai visti prima nella storia della disinformazione.

Abbiamo un profondo bisogno di conoscere a fondo anche questi aspetti più personali, appartenenti alla sfera individuale, per difenderci, da un lato, e per agire in modo diverso, dall’altro. Desideriamo così condividere alcuni strumenti concettuali che ci aiutino a pensare e agire con lentezza al fine di ripopolare il mondo digitale di un linguaggio ricco di significati e valori morali e recuperare forme di solidarietà e relazioni sociali che possono appagare diversamente il loro bisogno di affiliazione e di stima.

Come è possibile passare da rapporti manipolativi a rapporti inclusivi?

È tempo – affermano gli autori e le autrici – di elaborare narrazioni non tossiche, promuovere buone pratiche, restituire il senso autentico alle parole, ora spesso usate come armi. Servono cornici normative contro gli abusi in rete. Non una censura del pensiero quanto piuttosto il ripartire da una strutturata alfabetizzazione sui processi di comunicazione. È il momento di stare consapevolmente in rete, di informare e comunicare coltivando il dubbio e un’ecologia della mente, essenziali all’esercizio del senso critico. Ma è tempo anche di ribadire ed estendere i diritti umani, i “‘diritti aletici’, incentrati sullo svelamento, di operare e agire per costruire contesti inclusivi e sostenibili, senza dimenticare gli ultimi e chi è privato della libertà.

L’inclusione riguarda l’impegno di costruire contesti in cui tutti i membri diventino capaci di individuare le discriminazioni in atto, di renderle evidenti e richiedere cambiamenti, di fornire supporti e creare reti di protezione non come favore da compiere ai meno fortunati ma come una responsabilità nei confronti delle unicità che caratterizzano tutti noi. Così il lavorare per combattere le fake news si colloca all’interno di un quadro complesso che richiede una sorta di coscientizzazione e formazione in merito a ciò che sta accadendo, interventi in ottica preventiva ed educativa a vari livelli, un nuovo investimento in forme di umanesimo inclusivo e sostenibile che non possono che mettere al centro la persona con i suoi diritti ma anche con i suoi doveri sociali e ambientali, nella capacità di guardare non solo ‘al proprio orticello’ ma anche a quello degli altri, se non complessivamente ad un unico ‘orticello’ nel quale ci troviamo a vivere. Dobbiamo promuovere la capacità di utilizzare un linguaggio inclusivo, una mentalità incentrata su equità, giustizia sociale, diritti umani, sostenibilità e inclusione, forme di relazione che tengano conto di tutto ciò, e che a loro volta che non possono che essere foriere o volta di progettazioni professionali di qualità e protese esse stesse a

Quali possibili soluzioni dunque per contrastare le fake news, le distorsioni cognitive, i populismi e gli hate speech?

Rispettare i principi della nostra Costituzione, le leggi, i codici deontologici, contrastare le parole d’odio, i linguaggi offensivi che escludono e discriminano, sono queste tutte cose fondamentali. Soprattutto va chiarito che non ci sono “zone franche” sul Web dove dominino incontrastate le logiche commerciali e di profitto delle società del “capitalismo della sorveglianza”, in primis Facebook e Google. Poi ci sono il fact checking e il debunking, l’individuazione delle bufale, strumenti utilissimi. Contemporaneamente va smascherato chi ha come unico obiettivo quello di “mobilitare i propri sostenitori e sabotare gli oppositori” praticando la “propaganda totale” che consiste in una militarizzazione della sfera pubblica come ha scritto Wlliam Davies in Stati Nervosi un libro prezioso per capire il nostro tempo.

Ma tutto ciò può essere sufficiente? Anche qui ci troviamo di fronte a un enorme paradosso. Tutti, persino in Italia, convengono sul fatto che la comunicazione produca oggi effetti in ogni campo della vita sociale. Eppure nelle scuole si fa molto poco (solo progetti sperimentali) per accrescere l’alfabetizzazione mediatica di chi studia. Ci sono due equivoci micidiali da superare: che questa sia una sfera del sapere che non merita di essere analizzata e studiata o che sia un campo dove poi le cose si aggiustano da sole. E invece un lavoro pedagogico sui media, una strutturata educazione al loro uso sono assolutamente indispensabili, molto più utili di qualsiasi fact checking. È dimostrato che le persone capaci di leggerle criticamente reagiscono alle news in maniera completamente diversa da quelle che invece le subiscono senza capire cosa stia avvenendo. Solo chi riesce a dare un contesto a una notizia esce dalla passività, prende coscienza delle dinamiche e delle narrazioni dominanti. Vale per qualsiasi aspetto della nostra vita sociale dove la spettacolarizzazione degli eventi e la loro trasformazione in intrattenimento sono sempre in agguato. Soltanto conoscendo linguaggio e codici della comunicazione, possiamo ribaltare i processi che “deformano la percezione”. E la parola alleanza torna utile per disegnare un nuovo rapporto fra chi vive facendo informazione e chi opera nel mondo della ricerca, dell’Università, chi si occupa di inclusione e di consapevolezza. Senza una nuova ecologia dell’informazione e una alfabetizzazione ai media non c’è futuro. Alleanza pure con la cittadinanza proponendo un giornalismo che abbia al suo centro l’accuratezza che non è la precisione, spesso impossibile da raggiungere nel flusso immediato delle notizie, ma è l’attenzione a fare bene una cosa.

È esattamente il contrario di quanto accade oggi nel nostro sistema informativo, sempre nevrotico, spesso isterico nel voler raggiungere subito conclusioni, trovare colpevoli. Prodotti soltanto commerciali, ispirati a logiche di marketing, non possono ambire a svolgere un pubblico servizio. È una contraddizione che va sciolta: l’allarmismo conquista l’attenzione immediata ma non va oltre, anzi favorisce solo chi poi lo sfrutta politicamente proprio per comprimere la libera informazione. Per questo il miglior antidoto alle fake news consiste nell’allargare a 360 gradi la nostra conoscenza. Non occorrono dei “sacerdoti del vero” che pontificano dall’alto. Il tema ha una dimensione universale, dobbiamo essere capaci di leggere l’intero ecosistema. Ciò è praticabile visti i tempi? La risposta è che la storia va sempre avanti, un orizzonte di cambiamento e di liberazione ce lo abbiamo, non vale forse la pena di batterci, in questo caso per la salvezza del “pianeta convivenza”? Il giornalismo è dentro lo stesso “mondo della vita” dell’Università, di chiunque si occupi di cultura. “Fare la verità” significa sempre aumentare le proprie fonti, renderle pubbliche, dialogare (senza arroganza e avvertendo di essere noi stessi parte del problema) con la cittadinanza uscendo dalle cittadelle delle professioni e delle categorie. E se la verità non è un possesso, può essere pero una passione, un impegno, un lavoro, una fatica, un’avventura. Si basa su una spinta etica che produce una riflessione su dove stia il potere, quello nascosto ma “autentico”, che gestisce e manipola la vita delle persone.

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Roberto Reale, laurea in Scienze Politiche, giornalista e scritto­re, già vicedirettore del Tg3 e di Rainews 24 dove ha curato “Scenari l’Inchiesta Web”, settimanale di approfondimento sull’attualità. Si occupa dell’evoluzione dei media e degli effetti concreti che nuovi strumenti e tecnologie hanno sulla società con particolare attenzione ai temi legati a cittadinanza e democrazia. Oggi è docente a Padova al Master in Comunicazione delle Scienze e al Corso di Laurea Magi­strale in Strategie di Comunicazione dove insegna Radio Televisione e Multimedialità

Laura Nota, delegata del Rettore per l’Inclusione e la Disabili­tà e professore ordinario presso il Dipartimento di Filosofia, Sociolo­gia, Pedagogia e Psicologia Applicata dell’Università degli Studi di Padova. Dirige il Laboratorio Larios, è presidente della European So­ciety for Vocational Designing and Career Counseling (ESVDC) e del­la Società Italiana per l’Orientamento (SIO). Direttrice del Master interateneo di II livello Inclusione e Innovazione sociale. Insegna e svolge ricerche e studi in materia di inclusione e progettazione profes­sionale in ottica inclusiva e sostenibile.

in https://www.letture.org/

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