Transizione ecologica. La felicità ha il cuore verde

Carlo Petrini e Gaël Giraud

Si avvicina la prossima edizione di Terra Madre– Salone del Gusto, in programma dal 22 al 26 settembre prossimo. Si terrà presso l’area del Parco Dora di Torino, un posto di periferia che, per decenni, ha ospitato grandi stabilimenti e che oggi sta cercando di emergere come uno dei centri di socialità del capoluogo piemontese. Alla base c’è l’idea che la Rigenerazione (tema di Terra Madre 2022) dei sistemi sociali ed economici partirà proprio dai quartieri in cui si sviluppa concretamente la vita comunitaria.

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Il percorso verso Terra Madre continua e approfondisce il tema centrale della manifestazione, la rigenerazione, è sempre più urgente. Le preoccupanti crisi a cui siamo sottoposti ci spronano a rigenerare il nostro rapporto con la natura; a plasmare nuovi tipi di socialità e a sovvertire un modello economico che sta riversando sulle spalle dei cittadini, specialmente quelli più bisognosi, tutto il peso delle sue esternalità negative. Dare nuova vita a tutti questi aspetti richiederà del tempo. Decenni sicuramente, forse secoli, che segneranno l’epoca della transizione ecologica. Di questi temi ho voluto parlare con un economista francese di levatura internazionale: Gaël Giraud, ex capo economista dell’Agence Française de Développement, direttore di ricerca al Cnrs di Parigi, direttore del Programma di Giustizia Ambientale alla Georgetown University (Washington, DC) e sacerdote gesuita. Colui che pubblicò in Francia, già nel 2012, un libro pionieristico: Transizione Ecologica. La finanza a servizio della nuova frontiera dell’economia (Emi, 2015).

Carlo Petrini: Gaël, il tuo percorso dimostra come, con forza di volontà e determinazione, sia possibile rigenerare le nostre vite. Dal mondo dell’alta finanza sei entrato in seminario e ti sei dedicato alla trasmissione delle tue conoscenze ai più giovani. Un cambio di vita radicale che non ha fatto leva sull’aspetto del profitto economico. Da economista, dunque, sei l’esempio che la qualità della vita non è unicamente connessa al guadagno monetario, ma che la realizzazione personale passa da aspetti che abbracciano la spiritualità, la condivisione, la reciprocità. Credi sia possibile cambiare anche i paradigmi su cui si basa l’attuale sistema economico, in modo da riavvicinarli a una dimensione meno tecnica ma più umana? Esistono già dei modelli che tu ritieni essere validi strumenti di rigenerazione?

Gaël Giraud: Durante il mio servizio civile in Ciad ho dovuto scontrarmi con ambienti duri, dove la violenza e la morte erano all’ordine del giorno. Ma i bambini – quelli che molti definirebbero i poveri della parte povera del mondo – che popolavano ogni giorno le strade, mi hanno saputo trasmettere la vera gioia della vita. Ed è grazie a loro se ho avuto quella che definisco la mia conversione. Quell’esperienza vissuta tra l’inferno delle carceri e la vitalità delle strade africane mi ha fatto capire quali fossero i valori che dovevo cercare. Per questo, quando a 31 anni mi è stato proposto un posto di tutto rispetto a Wall Street, le mie riflessioni sono durate 10 minuti, non di più. Scegliere il ricco e austero mondo della finanza sarebbe stato come tradire quei bambini, i quali privi di tutto affrontavano ogni giorno con la forza di sorrisi che non ho mai più colto in Occidente. Ahimè, cambiare il sistema economico imperante richiede più tempo, ma è possibile.

Voglio partire da una considerazione: il Pil – indice assunto a livello internazionale per la misurazione della “salute” economica degli stati – è una convenzione del tutto fallace e insensata. Basti pensare che un incidente stradale favorisce l’aumento del Pil: l’auto da riparare genera produzione e lavoro, le spese sanitarie rinvigoriscono l’economia, eccetera. Necessitiamo dunque di nuove misurazioni che prendano in considerazione ben altro che la mera crescita economica. Ad esempio, esiste l’ISU (Indice di Sviluppo Umano) – adottato nel 1990 dall’ONU – che prende in considerazione la speranza di vita in buona salute, il livello d’istruzione di tutta la popolazione, l’uguaglianza di reddito e la forbice salariale tra i cittadini. Questo strumento non è molto conosciuto; ed è ancora poco utilizzato perché ha il potere di scardinare quel meccanismo di competizione economica tra stati che il modello neoliberale impone per sua stessa natura (gli stessi finanziamenti a livello internazionale si basano esclusivamente sul PIL delle nazioni). Eppure non vi è nessuna legislazione a livello internazionale che tuteli l’utilizzo del Pil; dunque, se ci fosse la volontà, sarebbe molto veloce e semplice abbandonare questo metodo di comparazione. Anche l’impronta ecologica delle aziende che operano in una data nazione dovrebbe rientrare tra gli indici di misurazione. Purtroppo la questione climatica è urgente, ma la politica tarda a prendere soluzioni concrete. Per come stanno le cose ritengo che la società civile sia protagonista nel processo di avviamento del percorso di conversione ecologica. Questa, attraverso la sua capacità organizzativa, può fungere da Cavallo di Troia per cambiare, da dentro ai palazzi del potere, le sorti del nostro domani.

CP: Questo è un punto fondamentale. Oggi è importante che ogni individuo, ogni associazione, ogni forma di aggregazione prenda coscienza del suo potere politico. Con Slow Food è da oltre trent’anni che cerchiamo di sensibilizzare i cittadini sul valore politico delle loro scelte alimentari. Secondo te quali sono le azioni concrete che possono essere determinanti in questa fase? E quali sono i motivi per cui la politica sembra non muovere alcun passo?

GG: Partiamo dalla considerazione che il modello economico occidentale si forma e si trasforma parallelamente all’estrazione delle risorse naturali utili ai fini energetici. Tutte le trasformazioni sociali del XIX secolo sono strettamente connesse all’utilizzo del carbone, il quale però ha il problema di essere molto costoso da trasportare. Ecco che nel XX secolo tutte le attenzioni si concentrano sull’estrazione di petrolio – che si trasporta più facilmente – congiuntamente alla quale viene a generarsi quel neoliberismo che ora grava pesantemente sulle politiche internazionali. Questo indirizzo di pensiero ha creato da una parte l’illusione dell’infinitezza delle risorse naturali e dall’altra un regime energetico che va di pari passo con il regime politico-finanziario. Ecco spiegato perché oggi la politica risulta essere ancora molto indietro sui temi della transizione ecologica. I risultati che ognuno di noi può raggiungere adottando semplici accorgimenti nelle sue scelte quotidiane, però, sono davvero significativi. Diminuire il consumo di carne, prediligere di spostarsi con i mezzi pubblici, evitare gli aerei (soprattutto per spostamenti a corto-medio raggio), rendere energeticamente efficienti gli edifici in cui viviamo, agevolare il riciclo dei nostri scarti. Tutte queste azioni possono abbattere l’impronta di carbonio del 20-25 per cento. Ed è sicuramente un primo passo determinante anche per spronare la politica. Ma non basta.

Per andare a scalfire quel 75-80 per cento che non deriva dal comportamento dei cittadini – bensì dalle scelte di politica economica – è necessario unire le forze individuali. Il mantra, a mio modo di vedere, dovrà essere: diminuzione dell’utilizzo di beni materiali e crescita degli aspetti immateriali. Coniugando le mie due anime da sacerdote e da economista, affermo che se concentriamo la nostra attenzione sui beni relazionali e sul recupero della spiritualità, potremmo scoprire una via meno tortuosa di quella che può sembrare oggi.

CP: Sono d’accordo. E aggiungo che, nonostante le problematiche siano sempre più serie e preoccupanti, con il magone non si è mai cambiato nulla. La transizione ecologica sarà un processo di liberazione che, se condiviso da tutti, potrà davvero restituire serenità e vera felicità. Attraverso l’esempio di Terra Madre, posso affermare come la comunità sia una forma funzionale in questo senso. Qui agisce una sicurezza affettiva che porta ad affrontare le sfide con vigore e determinazione. Il tuo prossimo libro si intitolerà La rivoluzione dolce della transizione ecologica (in uscita in ottobre per LEV): come possiamo allontanare quello spettro che avvicina questo processo a fasi di privazione, mortificazione e restrizione economica?

GG: La trappola neoliberalista ci dice che il futuro è rappresentato dal debito pubblico che bisogna ripagare. Questa è una maniera per anestetizzare la società. A questo aggiungiamo il fatto che molti, specialmente i giovani, iniziano a vivere sensazioni di ansia per i cambiamenti climatici e la questione ambientale in generale. Non mi stancherò mai di dire però che a farci uscire dall’angoscia è proprio l’azione. E come dici giustamente, agire insieme per una causa comune può essere liberatorio e farci toccare con mano che una tale rigenerazione la si può affrontare in maniera felice. L’unica vera decrescita di cui necessitiamo è quella del consumo di materie prime. E la sfida che sto cercando di portare avanti è quella di far capire a livello istituzionale che questo può voler dire un consistente aumento di posti di lavoro. Faccio un esempio. Quest’anno ho pubblicato un rapporto sulla transizione energetica, da qui al 2050, in Francia. Quello che emerge è che questo processo rappresenta un’opportunità di lavoro incredibile. Si tratta di un delta positivo di più di un milione di lavoratori che possono andare a ricoprire un ruolo attivo nel percorso della transizione ecologica. Analogamente, tutte le attività che si occuperanno del riutilizzo e del riciclo delle risorse naturali creeranno numerose opportunità di lavoro. Dunque, per agevolare una conversione ecologica che rispetti a pieno gli insegnamenti di Papa Francesco, ovvero che riesca a risanare sia la questione ambientale sia quella sociale (connesse tra loro senza soluzione di continuità), si può far affidamento a nuove tecnologie verdi. Gli strumenti li abbiamo già, dobbiamo solo dare avvio al percorso. E voglio concludere con una riflessione sulla digitalizzazione, che potrebbe essere una buona alleata per la transizione ecologica. Ma attenzione al processo di tribalizzazione digitale: la tecnologia deve essere a servizio della gente e non il contrario. Il rischio più grande è quello della distruzione della socializzazione, perché chiudersi nella tribù del digitale equivale a smettere di confrontarsi con le comunità. Anche questo si può ancora evitare, dobbiamo solamente volerlo.

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