Le tecnologie digitali. Un enorme potenziale di crescita e sviluppo umano

MICHEL SERRES


Il nostro corpo ascolta, grida e ricorda. Batteri, alghe, funghi, piante e animali segnalano anch’essi la loro presenza e percepiscono l’ambiente, ciascuno a suo modo; senza scambi di energia, ma anche di informazione, nessun organismo potrebbe sopravvivere. Prima ancora di farsi umana, la comunicazione caratterizza il vivente come sistema aperto: le cellule comunicano tra loro nei corpi e questi tra loro entro la loro nicchia ecologica. Su piccola scala le reazioni chimiche, su grande scala le tempeste e le galassie, scambiano sempre energia e informazione nell’ambito della materia inerte. Noi uomini aggiungemmo a tali prestazioni, puramente fisiologiche o fisiche, una panoplia di artefatti destinati a sostituire il nostro corpo nelle sue attività di comunicazione: questo arsenale di messaggerie e semafori variò nel corso della storia. In tempi recentissimi le tecnologie elettroniche hanno nuovamente sconvolto l’insieme degli strumenti che permettono di ricevere informazione, di immagazzinarla o di conservarla, di emetterla o di trasmetterla.

Questo recente cambiamento riguarda il tempo, lo spazio e i rapporti tra gli uomini. In tutta la storia abbiamo conosciuto almeno due sconvolgimenti dello stesso tipo: l’invenzione della scrittura e quella della stampa. Incisa su pietra, bronzo o tavolette di cera, prima di poterla leggere su papiro o su carta, la prima contribuì in modo decisivo a creare le prime città, nella Mezzaluna fertile, grandi Stati organizzati secondo le regole di un diritto scritto (codice di Hammurabi, legge mosaica); facilitò e accelerò gli scambi commerciali grazie al conio delle monete; dette slancio alle scienze e alla pedagogia, nell’antica Grecia, così come alle religioni monoteiste, che possono essere definite culti della Scrittura. Ma c’è di più: oggi dividiamo il tempo umano in due parti distinte, preistoria e storia, e quest’ultima comincia esattamente dalla comparsa dei primi testi incisi. Le grandi stabilità politiche, religiose, economiche, scientifiche giunte fino a noi derivano dunque dagli strumenti utili ad affrontare l’informazione, che nella storia, come ho detto, cambiano meno di quanto non le comandino, dal momento che fu la scrittura a far nascere la storia.

Da quando nel Rinascimento fa la sua comparsa la stampa, le banche italiane trasformano gli scambi commerciali nel Mediterraneo, dove le lettere di cambio sostituiscono la moneta, e lanciano il primo capitalismo; la circolazione dei libri favorisce l’indipendenza individuale sostenuta dalla Riforma protestante e, con essa, la democrazia politica e il diritto civile; il loro immagazzinamento nelle biblioteche svaluta i dossografi e, sgravando la memoria, pone l’osservatore di fronte ai fatti bruti contribuendo così alla nascita della sperimentazione meccanica e fisica; insomma, la stampa genera la scienza moderna; infine Montaigne, Erasmo, Rabelais e altri ancora traggono da tutte queste novità nuovi concetti della pedagogia. Le due trasformazioni presentano un profilo simile.

L’immensa differenza fra tecnica e tecnologie
I cambiamenti dei supporti dell’informazione – tecnologie “morbide”, su scala negentropica – sembrano dunque, per duttilità, velocità e capacità di espansione, influenzare più fortemente i comportamenti individuali e l’organizzazione sociale rispetto alle cosiddette rivoluzioni generate dalle tecniche “dure”, su scala entropica, come la rivoluzione industriale. Da un lato, la meccanica e la termodinamica ci hanno da tempo introdotti a una conoscenza precisa e sviluppata delle seconde e delle loro leggi, costanze di energia o rese dei motori; d’altro lato, ignoriamo ancora in larga parte quelle delle prime, totalmente distinte per ordini di grandezza e applicazioni. Conservo dunque in francese l’anglismo technologie per l’insieme degli artefatti che manipolano segni, ossia logos, e lo contrappongo alle techniques, il cui campo d’azione energetico differisce dal primo di un fattore 10 alla 16sima potenza.

Nuovo esempio: negli ultimi decenni, raffinati filosofi ci insegnavano nei loro libri l’importanza decisiva delle tecniche diverse dal libro, come quelle delle miniere, delle fabbriche o dei laboratori; idealiste e trasparenti, le pagine così scritte non si consideravano esse stesse tecnologie. Scaturiti dalle azioni necessarie del vivente, e indubbiamente, più alla lontana, dagli scambi nell’inerte, i diversi modi di accumulare o scambiare informazione governano cambiamenti meno visibili, ma di più lunga portata rispetto a quelli che sembrano determinare le alte energie. La mia generazione ha assistito al disastro: l’acciaio, il carbone e gli altiforni di un tempo, sui quali i miei padri credevano di costruire l’Europa, raggiunsero presto all’uscita i mulini a vento e i telai di una volta, mentre il computer moltiplica le stampanti e fa trionfare sempre e ovunque l’antica incisione dei segni. Lungi dall’uccidere i precedenti, l’invenzione di un supporto li rianima e li espande.

Se questa rettifica della nostra visione della storia ha un senso e, cosa più difficile da dimostrare, se le nuove tecnologie innovano fortemente in rapporto alle precedenti, bisogna dunque attenderci sconvolgimenti e addirittura rotture di un’ampiezza equivalente almeno a quelle che lacerarono quei due eventi del passato.

Di fatto l’economia si trasforma, diffondendosi sulla rete sotto i nostri occhi, rendendo volatile la moneta prima di esigere una sola unità di conto; le scienze hanno già mutato paradigma per effetto del computer; gli spazi urbani e rurali si ridistribuiscono molto rapidamente e, di fronte a tutte le altre, ogni religione entra in crisi; alcuni di noi cercano un nuovo diritto, poiché la rete e la scienza mostrano oggi molti luoghi di non-diritto, e tutti deplorano che la politica cada nell’abbandono, nell’attesa di consultazioni dirette. Tanto le società avanzate quanto quelle in via di sviluppo, infine, progettano un insegnamento a distanza a vantaggio di una gioventù che, ancora una volta, non comprende il risentimento degli anziani verso la nuova cultura che essi non ammettono: pare di sentire l’eco di Socrate che si rifiuta di scrivere e ripete l’elogio della trasmissione orale, o dei professori della Sorbona medievale tutti istupiditi di latino davanti al riso di Rabelais. Si ripete a grandi linee il profilo delle trasformazioni antiche.

Un indirizzo senza più luogo
Da quando siamo uomini, abitiamo in uno spazio polarizzato attorno a luoghi di concentrazione, case, villaggi e tesori diversi; in particolare, il luogo stesso in cui vivo e al quale riferisco il mio indirizzo. Viviamo in questo spazio perché costruire lo forma, abitare lo consolida e pensare consiste nel riprodurlo. Lo spazio immagazzina, l’individuo pensa: stesso processo. Non saremmo potuti sopravvivere senza queste concentrazioni che condizionavano la vita, l’individuo, il collettivo, le pratiche e la teoria; non ci smettevamo, instancabilmente, di inventarne di nuove sotto tutti i rapporti.

Ed ecco che i computer portano a compimento questo segmento dell’ominizzazione. Perché se queste macchine possono essere definite universali, meritano tale titolo sotto la rubrica, appunto, della concentrazione. Che bisogno abbiamo di riunire libri, segni, beni, studenti, case o mestieri dal momento che il computer lo fa? Il problema generale dell’immagazzinamento che cercavamo di risolvere e sul quale lavoravamo follemente fin dalla nostra origine ha trovato soluzione, non solo reale ma virtuale: ogni questione di questo tipo trova molteplici risposte possibili, secondo le sue condizioni e costrizioni.

Le reti rendono desueta la concentrazione attuale, voglio dire un ammasso qualsiasi qui e ora. La rapidità delle comunicazioni concentra virtualmente ovunque, ad libitum, tutto o parte del connesso disponibile. Al contrario delle antiche tecnologie, le nuove macchine sostituiscono con trasmissioni rapide la funzione del conservare. L’insieme dei percorsi basta alla sintesi. Non immagazziniamo più cose, bensì relazioni. Lo scambio relativizza l’immagazzinamento. Va ripensato il capitalismo?

Le reti sostituiscono la concentrazione con la distribuzione. Da quando disponiamo, su una postazione portatile o sul telefonino, di tutti i possibili accessi ai beni o alle persone, abbiamo meno bisogno di costellazioni espresse. Perché anfiteatri, classi, riunioni e colloqui in un dato luogo, e perché una sede sociale, dal momento che lezioni e colloqui possono tenersi a distanza? Gli esempi culminano in quello dell’indirizzo. In tutto il corso della storia è stato riferito a un luogo, di abitazione o di lavoro, mentre oggi l’indirizzo di posta elettronica o il numero di telefono cellulare non indicano più un determinato luogo: un codice o una cifra, pura e semplice, basta. Quando tutti i punti del mondo godono di una sorta di equivalenza, la coppia qui e ora entra in crisi. Heidegger, filosofo oggi assai letto nel mondo, nel chiamare esserci l’esistenza umana, designa un modo di abitare o di pensare in via di estinzione. Il concetto teologico di ubiquità – la capacità divina di essere ovunque – descrive meglio le nostre possibilità rispetto al funebre qui giace.

Che cos’è un indirizzo? Una cosa e una parola, entrambe dotate di precise radici. Annuncio esatto dell’habitat, l’indirizzo dava la direzione corretta o prescriveva su un messaggio la sua destinazione verso quella residenza. Non c’è indirizzo senza luogo, ecco lo stato delle cose di un passato remoto e prossimo, dal neolitico a stamani. Oltretutto il termine viene dal re che, regnando qui, definiva così le frontiere locali del suo potere; dal re e dal quel diritto che non cambia, si dice, se non valicando i passi tra le montagne. Indirizzati, il portalettere, ogni messaggero, ma anche il gendarme e il giudice, potevano citarvi in nome del re e del diritto, a partire dalla confessione del vostro indirizzo, rurale o urbano. Anche le regole per la direzione dello spirito presuppongono uno spazio fornito di orientamento e di senso, costellato di luoghi individuati.

Habitat, potere o giurisdizione, rettitudine nel metodo e nel pensiero, l’indirizzo annunciava la ricchezza del luogo declinandone le caratteristiche. Persino i nomadi, spingendo davanti a sé le greggi, sapevano riconoscere la tenda, il tepee, le loro dimore mobili. Persino l’indirizzo di posta elettronica si riferiva prima al posto occupato da un apparecchio troppo pesante per poterlo agevolmente trasportare. Ma ora, per la prima volta nella storia, il telefono e il computer portatili liberano l’indirizzo dal luogo. Non vi chiamo più solo a casa, in ufficio o in mezzo a quel vecchio quadrato di erba medica, ma ovunque voi erriate, in mare, in vetta al Cervino, in treno o in aereo, a due passi da qui o dall’altra parte delle longitudini. Voi mi rispondete senza sapere da dove vi interpelli e io vi ascolto ignorando da dove arrivi la risposta, a meno che una cifra non dica la fonte senza luogo dell’emissione. Conversiamo da codice a codice: la geometria o la topografia locali lasciano il posto a un’aritmetica o una criptografia dei numeri. Assenti dal locale, eccoci presenti nello spazio globale. Camminatori, erranti o persi?

Perché se l’indirizzo porta con sé quella rete semantica sulla correttezza, la dirittura e il senso, il suo svanire cancella la pregnanza di ogni regola. C’è chi vuole regolamentare la rete: poiché l’indirizzo implica il re e il diritto, hanno paura di perdere ogni legge perdendo il luogo e la destinazione. A mio parere meglio ripensare lo spazio, l’habitat, il qui e l’ora, gli oggetti raccolti, i soggetti collettivi… tanto l’intera filosofia quanto la cognizione in particolare.

L’uomo cognitivo e collettivo
Cambiare tempo storico e habitat non lascia l’uomo invariato. Un altro modo di interpretare il gesto di immagazzinare: depositare informazione su pergamena, carta stampata o supporto elettronico significa costruire una memoria. I nostri antenati assomigliavano agli attori di oggi che sono in grado di recitare a memoria migliaia di versi o di sostenere altrettante repliche. Simili eroismi superano ormai la nostra capacità. Man mano che costruiamo memorie performanti, perdiamo la nostra, quella che i filosofi chiamavano una facoltà. Possiamo davvero dire: perdere? Niente affatto, perché il corpo deposita, a poco a poco, quell’antica facoltà nei supporti mutevoli; cervicale e soggettiva, essa si oggettivizza e si collettivizza. Una stele di pietra, un rotolo di papiro, una pagina di carta: ecco memorie materiali, in grado di dare sollievo alla nostra memoria corporea. Era vero per le biblioteche, lo è ancora di più per la rete, memoria globale ed enciclopedia collettiva dell’umanità.

Secoli fa cantastorie, aedi, gli apostoli di Gesù, gli interlocutori di un dialogo di Platone, anche uno studente della Sorbona medievale, potevano ripetere a distanza di anni, senza omettere una sillaba, i discorsi di un maestro o di un oratore uditi da giovani. Al riparo dagli errori di copisti troppo interventisti, la tradizione orale tracciava una via più sicura rispetto alla trasmissione scritta. I nostri predecessori coltivavano dunque la loro memoria e disponevano di sottili strategie mnemotecniche. Man mano che prendevamo note o leggevamo stampati, non tanto abbiamo perso quella facoltà quanto l’abbiamo depositata nei libri e nelle pagine. Così come la ruota fu ispirata dal corpo, dalle caviglie e dalle rotule in rotazione nella marcia, allo stesso modo l’immagazzinamento dell’informazione prese le mosse da funzioni cognitive antiche. Al contrario degli animali, bloccati in un organismo senza “secrezione” di questo tipo, noi non cessiamo di riversare le nostre prestazioni corporee in strumenti prodotti a partire da esse. Perdiamo la memoria perché ne costruiamo di multiple.

Ci uniamo qui ai piagnoni antichi e moderni, i cui discorsi e testi deplorano la perdita dell’oralità, della memoria, della concettualizzazione e di tante altre cose preziose per i nostri avi. In realtà la perdita della memoria, nell’epoca che seguì quella in cui si declamavano a mente i poemi di Omero, liberò le funzioni cognitive dal carico impietoso di milioni di versi; apparve allora, nella sua semplicità astratta, la geometria, figlia della Scrittura. Allo stesso modo nel Rinascimento una perdita ancora più importante sollevò i saggi dallo schiacciante obbligo della documentazione, che allora si chiamava dossografia, e li riportò bruscamente alla nuda osservazione che fece nascere le scienze sperimentali, figlie della stampa. A bilancio, i vantaggi prevalgono in maniera preponderante sui pregiudizi, poiché in tali circostanze nacquero due altri mondi, che permisero di comprendere questo. Sapere consiste allora non più nel ricordare, ma nell’oggettivare la memoria, nel depositarla negli oggetti, nel farla scivolare dal corpo agli artefatti, lasciando la testa libera per mille scoperte.

Ho impiegato molto a capire che cosa volesse dire Rabelais, quando i professori mi obbligavano a dissertare sulla celebre frase: Preferite una testa ben fatta a una testa piena. Prima di poter allineare i libri nella loro libreria, Montaigne e i suoi antenati dotti dovevano imparare a memoria l’Iliade e Plutarco, l’Eneide e Tacito, se volevano averli a disposizione per meditare. L’autore degli Essais li cita ormai ricordandosi solo del loro posto sugli scaffali per consultarli: quanta economia! All’improvviso la pedagogia, che quel Rinascimento auspica, vuoterà la testa un tempo piena, e ne modellerà la forma senza preoccuparsi del contenuto, ormai inutile in quanto disponibile nei libri. Liberata della memoria, una “testa ben fatta” si volgerà ai fatti del mondo e della società per osservarli. Rabelais, in quella frase, in realtà, loda l’invenzione della stampa e ne trae lezioni educative.

Decisamente, bisogna riscrivere Pantagruel o gli Essais. Come vecchi cadenti, i bambini di oggi non ricordano neppure la trasmissione vista ieri sera in televisione. Quale scienza immensa promuoverà quest’altra perdita di memoria? Questo sapere recente si può già apprenderlo o almeno visitarlo sulla rete, come il nuovo oblio l’ha già modellato. Sì, l’enciclopedia, la cui rete mondiale gronda informazioni singolari, ha appena cambiato paradigma, sotto l’effetto della nuova liberazione. Il nostro apparato cognitivo si libera anche di tutti i possibili ricordi per lasciare spazio all’invenzione. Eccoci dunque consegnati, nudi, a un destino temibile: liberi da ogni citazione, liberati dallo schiacciante obbligo delle note a piè di pagina, eccoci ridotti a diventare intelligenti!

Come nel Rinascimento, giungono una nuova scienza e una nuova cultura, i cui grandi racconti producono un’altra cognizione che li riproduce a loro volta arricchiti. Questo cambiamento d’intelletto ha avuto luogo più volte nella storia, ad esempio quando arrivarono i modelli astratti della geometria o gli esperimenti in fisica, quando appunto cambiavano le tecnologie. Così la storia della filosofia e la storia stessa, tributarie della storia della conoscenza, seguono quella dei supporti.

Per finire, il supplizio di san Dionigi
Quando i soldati scatenati gli mozzarono la testa e quella cadde a terra, lui si chinò, decapitato, per raccoglierla, poi la tenne un momento tra le braccia sollevate. Quel gesto straordinario, si dice, fece indietreggiare persino i suoi persecutori. Così, secondo Gregorio di Tours, si racconta il martirio, attorno al 250, del vescovo di Parigi chiamato Dionigi. Potete vedere la scena al Panthéon, raffigurata nel 1888 da Léon Bonnat, pittore accademico.

Talvolta ci capita di raccogliere fiori, prendere in mano una pietra o una zolla dal suolo per esaminarli: ciò presuppone che prima li scorgiamo, poi che il corpo si pieghi, infine che il braccio li avvicini agli occhi; che la testa – sede dello sguardo, dell’udito, dell’odorato, del gusto, della lingua che parla e del cervello di cui si dice che giudichi e decida – serva in tutto da riferimento supremo, poiché sembra comandare di abbassarsi, di afferrare, di avvicinare a essa ciò che la cattura. Tale istanza, giudice o capo, la filosofia chiama soggetto. Ciò che spinge verso terra e che le dita serrano si chiama oggetto, che, potendo, la mano prende e il soggetto comprende. Il succitato supplizio trasforma meravigliosamente questa figura così ordinaria dell’esercizio della percezione e della conoscenza, poiché l’oggetto da raccogliere, da avvicinare al tribunale affinché lo esamini, diventa il giudice stesso, esattamente il capo, e le dita che se ne impossessano lo presentano a un’istanza assente e decollata. Quale santità permise a Dionigi decollato di riprendere la sua testa da terra?

L’oggetto, a fatica riconosciuto come tale dall’assemblea atterrita, all’improvviso si eleva al di sopra degli sguardi assassini e affascinati: sì, la testa della vittima tenuta dalle sue mani, sollevata al di sopra del cadavere acefalo, resta ancora un soggetto. Ma quell’altra testa, assente, la vede senza occhi, l’annusa senza odorato, la sente senza udito battere i denti e singhiozzare di sofferenza e senza cervello la giudica, senza bocca la proclama? Cieca, la testa fantasma guarda la testa reale, separata dopo la decollazione. È, qui, il soggetto nudo e vuoto, senza facoltà, che Bonnat dipinse in un’aureola abbagliante di trasparenza, di fronte al cognitivo oggettivato? A che cosa o a chi paragonare la console, il computer e la sua immensa memoria, il suo schermo, la sua potente rapidità di calcolo, la sua fulminea classificazione dei dati… a quale testa piena e ben fatta, massimamente densa e genialmente fabbricata? A quale luce trasparente paragonare la nostra stessa testa vuota di fronte alle sue facoltà materializzate sotto vetro e plastica, in silicio e fibre ottiche? Divenuti tutti dei san Dionigi, ormai ci impossessiamo ogni giorno, per servircene, di quella testa piena e ben fatta che giace davanti a noi, portatori di una testa vuota e inventiva sul collo. (Traduzione di Anna Maria Brogi)

   In Vita e Pensiero 28.05.2022